Dietro al gatekeeping sui Souls (e alle proposte per eradicarlo)

Con l’uscita del DLC di Elden Ring Shadow of the Erdtree, che si è contraddistinto per un livello di difficoltà persino maggiore rispetto a quello già elevato del gioco base, abbiamo visto il riaccendersi delle polemiche sulla questione “difficoltà e Souls”. Teatro di questo scontro tra parti molto poco disposte ad ascoltarsi sono stati, ancora una volta, i social network e soprattutto i canali Twitch e YouTube dei principali creator, dove possiamo trovare anche oggi, a più di tre mesi dalla release, verbose dissertazioni sulla mancanza di un selettore della difficoltà nelle opere di FromSoftware.
Inutile dire che la discussione si è fin da subito arenata su posizioni inconciliabili: da un lato chi sostiene che l’estrema difficoltà dei Souls sia un elemento caratteristico di queste opere e che quindi debba essere preservata ad ogni costo, dall’altro chi vede nell’introduzione del selettore – come di fatto hanno la maggior parte dei videogiochi – un atto dovuto, necessario per rendere questo genere di produzioni accessibili a chiunque.
Nell’armamentario retorico di chi sostiene quest’ultima posizione compare quasi sempre l’accusa di gatekeeping nei confronti di chi mostra scetticismo. Un’accusa legittima, perché supportata dai fatti, ma che finisce per spostare l’attenzione del discorso su un suo aspetto più collaterale, oscurando la complessità del fenomeno – di cui la difficoltà nei Souls è una spia eloquente – sotto la pesante crosta dei soliti estremismi.
Gatekeeping e Souls
Eletta come parola dell’anno nel 2022 da Vogue America, l’espressione gatekeeping rimanda alla pratica del “trattenere informazioni” con lo scopo di regolamentare l’accesso a un determinato ambiente, gruppo sociale, professione, ecc. Priva di accezione negativa, come spesso accade alle parole dal grande appeal comunicativo, l’espressione è diventata ben presto uno strumento efficace per indicare alcuni fenomeni pruriginosi del nostro tempo storico, tingendosi così di un senso perlopiù spregiativo. Sotto l’etichetta del gatekeeping si collocano infatti tutti quegli atteggiamenti di sfrontato elitismo, molto frequenti nell’ambito della cultura pop e soprattutto in quello videoludico, di chi s’intesta il diritto di stabilire i “requisiti” necessari per potersi dire fan di una certa opera o di un certo autore.
Per quanto riguarda i Souls, solitamente i capi d’accusa sono due: la mancata conoscenza della lore del gioco – la storia non raccontata, quella che si cela dietro la trama vera e propria – e la scarsa abilità nel padroneggiare il sistema di combattimento incentrato sul rigore dei tempismi e i limiti della stamina, che impediscono ogni deriva button mashing. È sulla base di questi elementi che viene spesso invocata la distinzione tra appassionati “autentici”, che conoscono segreti e minuzie delle opere From, e chi magari vi si è avvicinato solamente dopo la loro affermazione commerciale, consacrata dallo straordinario trionfo di Elden Ring, con i primi che arrivano persino a contestare il modo di giocare degli altri.

Il passaggio da fenomeno di nicchia a fenomeno di massa dei giochi From, d’altronde, non è stato privo di conseguenze. Dapprima aggregatori di tendenze e gusti videoludici ben definiti, i Souls sono diventati ricettacolo di un pluralismo sempre più rivolto al grande pubblico, come dimostra l’adozione dell’etichetta “soulslike” da parte di qualsiasi reparto di marketing che voglia promuovere un videogioco anche solo per limitatissimi aspetti simile alle opere From. Benché espressione di un successo naturale e meritato, questa ondata di attenzioni ha generato non pochi attriti tra le fila dei fan storici.
Di qui la feticizzazione e poi l’aggressiva difesa dei valori identitari; atteggiamenti che, come ci insegna la sociologia, sono spesso innescati dalla minaccia, reale o avvertita, di perdere un bene considerato esclusivo (come ben rappresenta la questione sugli stereotipi femminili nel videogioco). È l’erosione di quello spazio mediatico condiviso che era la community originaria dei primi fan di FromSoftware ad aver portato a galla il fenomeno del gatekeeping, ma prima ancora di chiederci se la minaccia fosse reale o solo percepita bisogna capire di cosa effettivamente parliamo quando parliamo di community online.
Esistono veramente le community?
Nel suo ultimo saggio Le non cose – Come abbiamo smesso di vivere il reale, il filosofo Byung-Chul Han spiega come, nell’epoca digitale, si sia affermata la supremazia delle informazioni sulle cose, che si distinguono da queste proprio per il loro essere informi ammassi di dati, non cose per l’appunto. Mentre le cose generano legami in virtù del rapporto tattile che hanno con il loro proprietario (che, attraverso ricordi ed esperienze, consente di riempire di un valore simbolico gli oggetti), le non cose non hanno “né fisionomia, né destino”, sono soltanto informazioni a cui si può sperare di avere accesso. Se le cose si fondano sull’uso, le informazioni hanno la propria ragion d’essere nel consumo.
Si passa così dal primato del possesso a quello dell’esperienza, vero interesse del “capitalismo della sorveglianza” – per usare la fortunata espressione di Shoshana Zuboff. Come sappiamo, le piattaforme digitali traggono infatti il loro (smodato) profitto dalla capitalizzazione delle informazioni che rilasciamo continuamente in rete interagendo, commentando, scambiando feedback su un larghissimo panorama di contenuti, di cui la cultura – cinematografica, musicale, letteraria o, per l’appunto, videoludica – è una parte consistente. È un meccanismo che fa dei nostri rapporti con i prodotti dell’industria culturale una vera e propria merce di scambio, ma, come sottolinea il filosofo sudcoreano, la commercializzazione della cultura ha delle ricadute sul sistema sociale entro cui ne fruiamo. Han ricorda:
La cultura ha la propria origine nella comunità. Essa trasmette i valori simbolici alla base di ogni comunità. Più la cultura diventa merce, più si allontana dalla propria origine. La commercializzazione e mercificazione totale della cultura provoca la distruzione della comunità. La «community» spesso evocata dalla piattaforme digitali è una forma merceologica di comunità. Una volta divenuta merce, la comunità cessa di esistere.

Le community online, pur nascendo da un interesse genuino e comprensibile, finiscono inevitabilmente per diventare lo specchio di quello che, nell’ambito della comunicazione pubblicitaria, corrisponde al “target group”, ossia il segmento di pubblico con le caratteristiche del consumatore ideale. Nell’infosfera, insomma, vi è una totale sovrapposizione tra appassionato e consumatore, ruoli in verità ben diversi, ma che per una sorta di assuefazione alle logiche mediatiche abbiamo bene o male un po’ tutti interiorizzato come equivalenti, fino a credere che essere appassionato di qualcosa significhi esserne un consumatore e viceversa.
Se la community non è che una “forma merceologica” della comunità, allora quando si punta il dito contro gli intrusi che minacciano di profanare – leggasi: rendere meno speciale – l’oggetto-feticcio delle nostre passioni, non si sta facendo altro che rivendicare un privilegio commercialmente riconosciuto. Non è che il capriccio di chi si ritrova a combattere la battaglia per la propria autoconservazione su un territorio dove non ha cittadinanza, iniziando così una crociata contro i mulini a vento – con la differenza di non avere nemmeno un briciolo di quel romantico idealismo del Don Chisciotte.
Il dito e la luna
D’altra parte, bisogna pur dirlo, riconoscere il ruolo e l’importanza della difficoltà nei Souls non significa necessariamente fare gatekeeping, quanto piuttosto cogliere ciò che, insieme al cripticismo narrativo, costituisce l’asse portante della loro intera estetica. C’è una differenza tra attribuire un valore a questo aspetto delle produzioni From e l’utilizzarlo per tracciare una linea di confine tra fan di serie A e fan di serie B. Sono dinamiche a volte complementari, ma non sempre equivalenti, e questo in tutti e due i sensi: come può essere che a decantare la bellezza dei Souls non siano solo gatekeepers incalliti, può anche darsi che chi si lascia andare a queste bassezze non abbia neppure gli strumenti per comprendere la profondità delle opere che va difendendo a spada tratta.
La consolatoria superficialità del meme “git gud” ci parla proprio di come spesso il primato della difficoltà nei Souls sia inteso in modo strumentale, come mero pretesto per dimostrare di essere “bravi” di fronte a un pubblico di poco capaci, i quali dovrebbero impegnarsi di più prima di parlare. In ballo non c’è la difesa dell’autorialità dell’opera, ma dell’uso che si può trarre da un suo accidentale risultato, e chi pensa che per risolvere la diatriba sia sufficiente introdurre il famoso selettore, anziché la luna, sta guardando ancora una volta il dito che la indica.

Introdurre un selettore della difficoltà servirebbe solo a risolvere il problema contingente – la fastidiosa presenza dei gatekeepers (e comunque non c’è troppo da sperarci) – e non quello sistemico sulle ragioni per cui il videogioco viene utilizzato come strumento di auto-affermazione, con il risultato di impedire persino la riflessione sul senso della difficoltà nel tentativo di “accontentare” un po’ tutti. È, detto altrimenti, una soluzione politica, cioè di compromesso, e in quanto tale si fonda e riproduce la stessa concezione del videogioco da cui il gatekeeping scaturisce.
Che i suoi sostenitori facciano appello alla libertà di “giocare come si preferisce” non è un virtuoso esercizio di liberalismo, ma l’ennesima conferma del totale asservimento delle opere creative che chiamiamo videogiochi ai nostri interessi di consumatori. Mentre nessuno si sognerebbe di mettere in discussione per fini tanto personalistici la difficoltà interpretativa di una pellicola di David Lynch o di un quadro surrealista, di fronte al videogioco ogni intento critico risulta subordinato al grado di soddisfazione che riusciamo a trarne, come fosse uno dei tanti prodotti industriali che più opzioni ha e meglio è.
Né può essere un caso che tutta questa voglia di polemizzare sulla difficoltà – spesso confusa con il concetto di accessibilità – abbia come bersaglio proprio quei videogiochi che attraverso la difficoltà (ludica e narrativa) si discostano dal panorama generale. Perché non se ne parla anche per i cosiddetti “rage game” alla Cuphead? Il paradosso è che i videogiochi hardcore vengono perlopiù risparmiati da questa diatriba: a salvarli è la loro facilità di collocazione sul mercato, segno di come tendiamo a ridurre i videogiochi alle loro caratteristiche; di come l’estrema confusione di ruoli ci abbia portato a sostituire la necessità dell’interpretazione con l’impellenza di trovare un target commerciale.

Opere cangianti, persino elusive, i Souls resistono a questo appiattimento grazie ad un uso intelligente, anticonformista delle logiche videoludiche, che li rende difficili da imbrigliare nelle categorie merceologiche a cui siamo abituati. Pretendere che si possa modificare il parametro della difficoltà nei Souls significa aver abbandonato del tutto la possibilità di ricollocare il videogioco all’interno del discorso videoludico, il quale – evidentemente – ha come perno centrale ancora il videogiocatore. Questo non impedirà il gatekeeping, né renderà i Souls più accessibili. Li renderà soltanto più conformi ai canoni dell’industria.