Harold Halibut – Cosa c’è dietro un’utopia?

Opera prima di Slow Bros., team dalle dimensioni esigue e tuttavia composito sotto il profilo delle competenze artistiche, Harold Halibut è un progetto dal carattere intimo e ambizioso, che si lascia alle spalle un lungo percorso di sviluppo. Nato nel 2012 dalla passione per la stop motion e i giochi narrativi che accomuna i componenti dello studio tedesco, vede l’avvio di una campagna kickstarter cinque anni più tardi, ma le cose non vanno come previsto: la raccolta fondi raggiunge soltanto un terzo del budget prefissato, e nemmeno la comparsa del publisher Curve Digital, che subentra di lì a poco, pare costituire una garanzia.
Avventura narrativa dalla grafica peculiare, basata su modellini realizzati interamente a mano e in seguito scannerizzati e digitalizzati, Harold Halibut fa così il suo debutto a più di dieci anni dal primo annuncio, portando con sé le speranze di un team che ha creduto fino all’ultimo nella forza delle proprie idee.
Il negativo dell’utopia
Come i trascorsi dei suoi autori, anche la storia di Harold Halibut parla di grandi viaggi e speranze. Sono passati 250 anni da quando, con l’intento di sfuggire allo spettro dell’apocalisse nucleare che si stagliava all’orizzonte della Guerra Fredda, una parte della popolazione mondiale è salpata per la volta celeste a bordo di un’astronave-città, iniziando così un lungo pellegrinaggio tra le stelle in cerca di un pianeta dove potersi insediare e vivere pacificamente.
La salvifica apparizione di un pianeta acquoso, che promette di poter garantire la vita umana, è subito ribaltata però in un moto di rassegnazione collettiva. Non appena atterrati, gli esuli si rendono conto dei gas tossici che pervadono l’atmosfera in superficie, rendendola di fatto irrespirabile. Per sottrarsi a questa coltre nociva, l’unica soluzione è ripiegare sotto le grandi distese acquatiche che circondano l’astronave, e fare di quest’arca della salvezza sprofondata la propria fissa dimora. Si erge così, nel cupo ventre di un oceano alieno e sconfinato, la città di Fedora I, baluardo di un’umanità in fuga dalla distruzione.

Il rimando alle Città invisibili di Calvino è tutt’altro che casuale se si pensa a come l’autore ligure descrive la città chiamata Fedora nella sua celebre opera:
«Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello d’un’altra Fedora. Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per l’altra, diventata come oggi la vediamo».
Deposito di sogni concepiti e subito dopo abbandonati, la Fedora calviniana incarna la discontinuità dell’utopia1, rivelandone il problematico rapporto con la realtà. Sogni e speranze collidono inevitabilmente con le trasformazioni del contingente, in una perenne rincorsa tra desiderio e realtà dove la seconda dimostra sempre uno scarto ineludibile sul primo. Similmente, questa sorta di improvvisa e improvvisata Atlantide che costituisce il mondo di gioco di Harold Halibut ci parla di un’utopia non riuscita, disinnescata sul nascere e subito trasformata in qualcos’altro dalle circostanze di un mondo indifferente: ci offre, per così dire, un negativo dell’utopia.
Sotto l’egida di All Water, corporazione a capo del progetto di insediamento, la popolazione di Fedora I si è reinventata come meglio poteva, costruendo una cittadella tentacolare, i cui distretti sono collegati attraverso un ingegnoso sistema di tubi capaci di spostare velocemente gli abitanti da un luogo all’altro. Nei panni di Harold, umile assistente di un’importante scienziata, esploriamo questo microcosmo deliziosamente retro-futuristico: un crocevia di luoghi strappati dalla loro epoca – quella degli anni ‘70 – e ricollocati in una nuova, che resta fuori dai margini del tempo, dove oggetti, idee, persone, trovano il loro posto pur rimanendo fuori posto, come un mucchio di lettere mai spedite.

Complice la perizia con cui sono stati realizzati personaggi e fondali, con una tecnica che fa apparire ogni sequenza del gioco come un film in stop motion, in questo scenario il giocatore è portato più alla contemplazione che all’azione. Ne risulta un’esperienza riflessiva, in piena rottura con le mode del mercato videoludico, dove il gameplay è intelligentemente asservito al procedere della narrazione, tanto che non vi sono ricompense di alcun tipo, nemmeno per le quest secondarie: nessun oggetto ottenibile, nessun tipo di punteggio. Solo una storia che si prende il suo tempo e il suo spazio per raccontarsi.
L’umano e l’alieno
Il tema dell’utopia si carica di ulteriori significati dal momento in cui entriamo in contatto con i Flumylym, una specie di pesci antropomorfi e dai colori cangianti che abita l’oceano. La loro apparizione è rivelatoria, toccata dall’ironia con cui solo il fato è solito sconvolgere l’ordine degli eventi. Nella realtà a-temporale di Fedora I, che si conserva sempre uguale a se stessa con le sue routine e i suoi obblighi formali, irrompe l’alterità, il diverso: l’alieno.
Perno del racconto è l’evolversi del rapporto tra Harold e una di queste creature, Weeoo: un’amicizia sincera in cui ravvisiamo anzitutto le profonde differenze che distinguono le due specie. Ai Flumylym, infatti, è totalmente estranea la nozione di genere, motivo per cui trovano assurdo che ci siano “due tipi” di essere umano; ma ancora più astrusa e difficile da comprendere è l’esistenza di una cosa come il denaro, il cui presupposto teorico più razionale non riesce a giustificare il fatto che “alcune persone ne possiedono di più di altre”.

Quello che nasce come un confronto tra le identità dei due personaggi diventa ben presto un confronto tra veri e propri modelli sociali, in seno al quale appare evidente il debito che l’opera di Slow Bros. trattiene nei confronti di un capolavoro della fantascienza utopica come I reietti dell’altro pianeta di Ursula K. Le Guin.
Originariamente sottotitolato Un’ambigua utopia, il romanzo di Le Guin ha come sfondo “due pianeti gemelli, Urras e Anarres, illuminati da uno stesso sole, ma divisi da una barriera ideologica antica di secoli”2. Il primo si basa su un sistema di sviluppo capitalistico come quello che ben conosciamo (portato, nella finzione, alle sue estreme conseguenze), mentre il secondo, che viene colonizzato da un gruppo di esuli, ne rappresenta l’alternativa più radicale, e cioè una società dove non esistono né denaro né gerarchie o autorità: una società che ha abdicato al possesso in ogni sua forma.
La medesima tensione dialettica viene espressa qui, dove al rapporto conflittuale che gli umani dimostrano di avere con l’ambiente, in cui vedono uno spazio minaccioso ma al contempo ricco di risorse da accumulare, viene opposto quello di armoniosa coesistenza dei Flumylym, i quali si limitano a “prendere” dal proprio ecosistema quel tanto che basta a una vita essenziale. Non è certo un caso se l’incontro con questa straordinaria specie avviene proprio quando gli equilibri di Fedora I iniziano a manifestare i primi segni di instabilità a causa della scarsità energetica.

Scopriamo così che l’alieno altro non è che un possibile dell’umano, un umano che è riuscito ad adattarsi, come suggeriscono le fattezze antropomorfe di queste strambe eppure familiari creature, e l’amicizia che lega i due protagonisti lo specchio di un’altra utopia che si affaccia all’orizzonte, forse inafferrabile, forse già perduta.
Rispecchiamenti
Benché la riflessione utopica sia ulteriormente stimolata da espliciti riferimenti alla contemporaneità, calati ingegnosamente e in modo critico nel gameplay, l’onere di svilupparla viene lasciato al giocatore. La trama, infatti, torna presto sulle vicende personali del protagonista, ovvero sulla sua necessità di dare un senso al proprio ruolo nel mondo, non perché non sappia qual è il suo scopo, cosa debba fare, ma perché “fatica a credere che sia importante farlo” – che importi a qualcuno.
La prospettiva esistenzialista da cui muove questa ricerca di senso si riflette nella nostra prospettiva di videogiocatori, accrescendone la consapevolezza. Dal momento in cui veniamo informati della presenza del quest-log, che è sapientemente immerso nel piano diegetico con l’espediente di un’agenda elettronica utilizzata dai cittadini di Fedora I per visualizzare i propri incarichi, anche noi, come Harold, sappiamo sempre cosa dobbiamo fare, dove dobbiamo recarci e per quali ragioni. Eppure, questa sovrapposizione tra personaggio e giocatore crolla non appena il primo, parlando “tra sé e sé”, si interroga sull’effettiva utilità di quel che gli è richiesto fare.
Se il nostro avatar inizia a domandarsi quale senso abbiano le azioni che compie, noi che quelle azioni gliele facciamo compiere, essendo la mano invisibile che lo manovra, non possiamo che chiederci quale senso abbia allora il nostro ruolo in quel mondo. Meglio ancora: quale sia il ruolo di quel mondo nel nostro. Ma la risposta, naturalmente, non si trova né al di là né al di qua dello schermo. Piuttosto, nell’interdipendenza di questi due microcosmi, nello slancio immaginativo che compie la nostra mente, con il suo corollario culturale e di esperienze, quando si rispecchia in un personaggio che non vuole farsi “vestire” pienamente, incoraggiandoci a fare ancora un passo più.

Il titolo di Slow Bros. si affranca così dall’autoreferenzialità cui tende ogni opera di finzione3 senza neppure fare appello alla metanarrativa, avvalendosi solamente di una scrittura matura e consapevole, guizzante di intelligente satira. La bellissima colonna sonora, che spazia con maestria da tracce synthwave a ispirati momenti blues, come anche l’ottima interpretazione dei doppiatori, vi si accordano perfettamente, portando a vette di autentica poesia, capace alle volte di commuovere, altre di strappare un incerto sorriso.
Illusorio, come la sua utopia sprofondata, il mondo di Harold Halibut sembra proprio costruito al solo scopo di farcene valicare i confini e spiegarci, con il tacito invito a sognare una volta di più, che dietro un’utopia c’è sempre un’altra utopia, perché suo vero scopo – come insegna Calvino – è quello di mettere in moto le nostre migliori volontà e i nostri sentimenti più sinceri. L’utopia non è una meta. È un mezzo.
- Milanini Claudio, L’utopia discontinua – Saggi su Italo Calvino, Carrocci Editore. ↩︎
- Le Guin Ursula K., I reietti dell’altro pianeta, quarta di copertina dell’edizione Oscar Mondadori. ↩︎
- L’articolo Di cosa parliamo quando parliamo di giochi? di Angelo Adriano ↩︎