Dovremmo smetterla con le “trailer analysis”

Se vi è una certezza, nel discorso videoludico, è che alla pubblicazione di un trailer d’annuncio segue sempre una copiosa rassegna di commenti ad un tempo eruditi e concitati su quanto è stato mostrato. Prassi del dibattito sui videogiochi – di chi lo sostiene dalle fondamenta: content creator e giornalisti della stampa specializzata si lanciano con sicumera in disamine lungamente argomentate, vorticose elucubrazioni su questo o quel dettaglio, ipotesi circa la fattura del “prodotto finale” (espressione tanto frequente quanto infelice), quando del prodotto finale, naturalmente, non vi è neppure l’ombra.
Lo si vede soprattutto in periodi come questo, dove lo spazio mediatico – quello cioè della nostra attenzione – è preso d’assalto dai reparti di marketing dei publisher, chi con il trailer di un gioco particolarmente in vista come il DLC di Elden Ring, Shadow of the Erdtree; chi con la solita carrellata di titoli che si susseguono freneticamente in uno show case da 20 minuti o poco più, tra i cui più recenti esempi possiamo citare il Pokémon Presents e l’Xbox Partner Preview.
Nelle sezioni commenti si leggono cose come «evento sottotono», oppure «bel ritmo, ma niente grandi nomi», e ancora «finalmente un gioco interessante». In generale, pare vi sia una predilezione per gli eventi con un elevato numero di annunci – meglio se fra questi compare un titolo molto atteso – e che soprattutto non si perdono “in chiacchiere” (il monopolio di queste, a quanto pare, deve rimanere nostro), quali potrebbero essere retroscena o interviste degli sviluppatori.

Il modello comunicativo maggiormente apprezzato dai videogiocatori è indubbiamente l’esposizione visiva del sovrabbondante – ennesima celebrazione della cultura dell’accumulo: uno shock di stimoli paragonabile a quello che Walter Benjamin ravvisava nel linguaggio cinematografico quando – sia pure con un pregiudizio che a noi posteri pare evidente – dichiarava: «il flusso associativo di colui che osserva queste immagini viene subito interrotto dal loro mutare. Su ciò si basa l’effetto di shock del film» (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica).
E shock sia, allora. Del resto, la funzione del trailer, la sua ragion d’essere, se così si può dire, è proprio quella di suscitare interesse in chi guarda, di invogliare all’acquisto, di far fantasticare un po’, e non basta certo rassegnarsi al più disilluso cinismo per essere anticonformisti e sfuggire allo strapotere del marketing. Avere uno sguardo critico sul videogioco significa prima di tutto accettare che esiste anche questa componente, e che in una certa misura riguarda pure la sua realizzazione, non fosse altro che sulla campagna pre-lancio ci si gioca già una bella fetta delle vendite.
C’è più dignità, e forse persino più anticonformismo, nel lasciarsi illudere consapevolmente, tenendo bene a mente i confini dell’illusione, che a sbattere i piedi per terra lamentando di essere stati ingannati. Il problema non sono infatti i trailer: anche noi ne parliamo, per lo più nelle puntate del nostro podcast A ruota libera, cogliendo l’occasione per raccontare delle nostre suggestioni, delle nostre speranze di vedere qualcosa di nuovo. Perché lasciarsi stuzzicare da quel che si è visto, partecipare dell’entusiasmo collettivo che eventualmente ne deriva fa parte di un gioco, e come tale – dovremmo saperlo bene, noi videogiocatori – lo si può prender sul serio solamente dopo averne accettato la natura di cosa poco seria.
Invece, assistiamo a ben altro spettacolo con il levarsi, dalle cattedre virtuali intorno cui si riuniscono le community online, di convintissimi slanci interpretativi, e la conseguente, totale messa al bando di quel confine tra ciò che c’è e ciò che non c’è ancora. Non potrebbe risultare più pericolosamente profetico, a questo punto, quanto già a suo tempo denunciato da Calvino in Mondo scritto e mondo non scritto circa la perdita di senso della comunicabilità dell’esperienza:
Questo mondo che io vedo […] si presenta ai miei occhi – almeno in gran parte – già conquistato, colonizzato dalle parole, un mondo che porta su di sé una pesante crosta di discorsi. I fatti della nostra vita sono già classificati, giudicati, commentati, prima ancora che accadano. Viviamo in un mondo dove tutto è già letto prima ancora di cominciare a esistere.
La scritta “trailer analysis” campeggia fiammante nella thumbnail del video appena pubblicato su YouTube, a meno di ventiquattr’ore dall’evento: il consueto sproloquio infarcito di commenti pretestuosi, di asserzioni prive di fondamento sul tipo di esperienza che quel gioco potrebbe offrire a partire “dalle sue premesse”. Ma possiamo davvero sperare di fare appello a qualcosa che non siano i nostri stessi pregiudizi quando, illusi di giudicare il gioco presentato, non facciamo altro che giudicare ciò che ci aspettiamo da esso, o meglio, dalla sua presentazione?
Cos’è questo se non il riflesso delle nostre abitudini di consumo, delle solite rassicuranti proiezioni ideologiche su categorie commerciali ormai assuefacenti? È abbastanza evidente che un simile approccio conduca allo slittamento squisitamente kantiano dall’oggetto al soggetto giudicante, cioè alla sua stessa capacità di giudizio: ancora una volta stiamo giudicando noi stessi – e curiosamente senza mai metterci in discussione.
Forse il caso di Starfield è tra i più rappresentativi. La querelle “quantity over quality” s’è riversata online anticipando l’uscita del gioco di almeno un anno, momento dal quale non a caso è praticamente scomparsa. Molti potrebbero ritenere complice di questo atteggiamento l’insistenza che ha avuto Bethesda nel pubblicizzare Starfield come la nuova grande opera fantascientifica che tutti stavamo aspettando, ottenendo peraltro risultati a volte esilaranti come la gaffe-meme sulla famosa data “scolpita nella pietra”, ma sarebbe l’ennesimo tentativo di autolegittimazione.
Discutere ossessivamente di ciò che i reparti di marketing vanno propagandando non è il modo più efficace di contrastarne l’assillo, ma il segno piuttosto eloquente di una generalizzata sottomissione al diktat delle piattaforme e alla polarizzazione generata dalla pressante richiesta di opinioni su qualsiasi cosa: nel dominio degli algoritmi il silenzio rimane la protesta più autentica.
Se è vero che è l’interazione a fare il videogioco, che alla base della specificità di questo medium vi è la caratteristica di potervi interagire, di essere agente attivo in un modo costruito apposta per essere modificato, non può che rivelarsi miope, anzi mortificante l’atteggiamento di chi si ostina a dar giudizi su dichiarazioni, immagini e filmati intelligentemente predisposti per dare solo la sfrontata illusione di qualcosa che ancora non esiste. Forse basterebbe riconoscere questo per iniziare a sfrondare quella pesante crosta di discorsi che si affaccia sul nostro mondo in preda alla logorrea di un delirio individualistico e profondamente narcisista.
L’unica cosa che possa aver senso dire di un trailer, se proprio lo si vuole giudicare, è in che misura ci ha fatto maturare interesse per il videogioco presentato, quanto ci ha stregato, quanto ce ne ha fatto venire voglia. Sognare un po’ e parlare senza pretese delle proprie suggestioni non è certo meno edificante del sapersi giostrare come un funambolo tra imponenti e pur sempre traballanti castelli in aria, anche quando certe acrobazie vengono eseguite con la prontezza argomentativa di chi ormai ha fatto del parlare a vuoto – e cioè sopra le cose anziché delle cose – il proprio mestiere.