Perché i videogiochi simulativi sono divertenti

Una tipologia di videogiochi che ha da sempre suscitato un certo fascino nei miei confronti sono i cosiddetti simulatori, giochi in cui viene riproposta – con un grado di verosimiglianza variabile – l’esperienza di alcune attività professionali. Tra i più celebri troviamo senz’altro Microsoft Flight Simulator, storica serie del colosso di Redmond che ci mette nei panni di un pilota di linea, dove poter scegliere tra molteplici tratte e velivoli, e sulla cui scorta hanno fatto la loro comparsa giochi come Euro Truck Simulator, dove invece ci si trova a guidare camion per tutta l’Europa.
La simulazione videoludica non si arresta al solo campo della guida, ma è arrivata a lambire, nel corso degli anni, i più svariati ambiti professionali. Vediamo infatti Farming Simulator riproporre nel dettaglio diverse pratiche agricole; Football Manager (per saperne di più potete recuperare la recensione di Football Manager 2024) che, dal canto suo, esplora la dimensione meno sportiva – quella appunto manageriale – del mondo calcistico; oppure ancora PC Building Simulator, dove specializzarsi nell’assemblaggio e nella riparazione di computer.
Ad un primo sguardo, probabilmente, in molti si chiederanno perché esperienze di questo genere vengano considerate dei videogiochi veri e propri, non essendo altro che la riproduzione di qualcosa che, in realtà, si contrappone in tutto e per tutto al concetto di gioco, e cioè il lavoro. Come può il videogioco partecipare di un’esperienza a tal punto distante da ciò che consideriamo come ludico? Dove finisce il gioco, e dove inizia il lavoro, in questo genere di esperienze? E soprattutto, perché piacciano a un numero non trascurabile di videogiocatori?

Cosa simula un videogioco simulativo?
Osservando l’evoluzione dei videogiochi simulativi ci si può rendere conto di come questa tipologia di videogame non rappresenti affatto una tappa a sé stante nella più ampia storia del medium, e che – al contrario di come verrebbe da pensare – la simulazione videoludica ha radici profonde tanto quanto il videogioco stesso. Secondo molti, il capostipite di questo fortunato genere è infatti The Sumerian Game, un gestionale economico sviluppato da William McKay nel 1964 in cui, attraverso un’interfaccia di solo testo, il giocatore doveva amministrare l’antica città-stato di Lagash decidendo dapprima come allocare le risorse (il grano), ed impiegando poi gli abitanti in diversi settori professionali fino a operare scelte commerciali e di espansione territoriale.
A segnare però il trionfo delle simulazioni in ambito videoludico sono soprattutto giochi storici come Space Tactics (1981) e Hang-On (1985) di SEGA, i quali, grazie al sistema di movimento idraulico ideato dalla casa giapponese, diventano presto degli standard per quello che riguarda il realismo dei comandi. Da qui, una copiosa produzione di simulatori, da quelli di corsa come Out Run (1986), a quelli di combattimento aereo come After Burner (1987) e G-LOC: Air Battle (1990). Il titolo che però incarna al meglio la filosofia della simulazione come assunto di gameplay, rivelando già ai suoi primordi gli scenari futuribili di questo genere videoludico, è il seminale Flight Simulator, pubblicato nel 1982.
L’antesignano del celebre simulatore di volo targato Microsoft si è subito distinto per l’inedita accuratezza con cui riproduceva, pur nei limiti di hardware oggi considerabili preistorici, i meccanismi alla base di un’attività complessa quale il pilotaggio di velivoli. Si andava così all’estremo opposto del concetto di arcade, termine utilizzato per quei giochi che si tengono appunto lontani dal fornire un’esperienza all’insegna del realismo, facendo della spettacolarizzazione delle proprie meccaniche il fulcro di una proposta ludica incentrata spesso sul dinamismo e sull’efficacia di pochi input.
Basta guardare però quegli stessi esempi – a loro tempo massimi esponenti della simulazione videoludica – e immaginare che vengano pubblicati oggi per farsi un’idea di quanto sia difficile stabilire oggettivamente il confine tra ciò che è simulativo e ciò che è arcade. Con ogni probabilità, infatti, nel mercato odierno Hang-On e congeneri verrebbero etichettati paradossalmente come giochi di corsa arcade, considerando uno spettro – quello dei racing game – che va dal dinamismo forsennato di Forza Horizon ai tecnicismi di Assetto Corsa Competizione.
In cosa consiste allora la simulazione videoludica? Del resto, se ci rifacciamo alla concezione aristotelica di mimesi per cui ogni forma d’arte è imitazione di qualcosa, dovremmo concludere che il videogioco, che alla dimensione imitativa aggiunge quella interattiva – permettendo quindi al giocatore di agire in un mondo virtuale e di modificarlo (pur entro certi limiti) – trascenda lo stesso concetto di mimesi, elevandola proprio a simulazione. Eppure, non ci sogneremmo mai di definire, ad esempio, God of War un “simulatore di massacri fra Dèi di diverse cosmogonie”.

Il motivo è presto detto. Essendo la simulazione un tipo, potremmo dire, peculiare di mimesi, anch’essa può essere ricondotta ai tre aspetti fondamentali che Aristotele individua nell’arte: il mezzo, l’oggetto e il modo. E se il mezzo è quello videoludico, va da sé che a determinare l’appartenenza di un videogioco alla sfera della simulazione sarà necessariamente il grado di realismo tanto del suo oggetto quanto delle modalità con cui esso viene rappresentato. Così che non diremo simulativo né un videogioco che riproduce realisticamente qualcosa di fantastico, né un videogioco che riproduce qualcosa di realmente esistente ma in modo poco fedele.
Da qui la tendenza, per i simulatori, a riproporre virtualmente attività inerenti i più svariati ambiti professionali, e il problematico, perenne oscillare della loro aderenza alla realtà a causa dell’inscindibile legame che c’è tra videogioco e tecnologia. Non possiamo infatti ignorare che gli standard con cui misuriamo la capacità di riprodurre realisticamente qualcosa in un videogioco vengono continuamente modificati in rapporto all’avanzamento tecnologico, il quale, determinando le possibilità espressive del mezzo, ne altera sempre e comunque anche l’estetica (ma di questo abbiamo già parlato in un approfondimento sulla semplicità del design).
La vita come spazio ludico
Come possono videogiochi con un carattere tanto ordinario e che si rifanno così esplicitamente alla normalità – a ciò che normalmente sta al di fuori dello schermo – suscitare emozioni ed essere persino divertenti? Domanda di fronte alla quale basta pensare a Street Cleaning Simulator, il cui titolo è già piuttosto eloquente sul tipo di divertimento che ci propone, per mettere a dura prova ogni tentativo di nobilitare il genere. O i simulatori non sono giochi, o il gioco è qualcosa di diverso da ciò che siamo abituati a pensare. Inutile girarci attorno: l’esistenza stessa dei simulatori – complice il loro successo – ci porta direttamente alla seconda ipotesi.
Ne abbiamo parlato anche in questo episodio del nostro podcast redazionale.
Nelle prime pagine del suo libro Filosofia in gioco Ermanno Bencivenga – che proprio a questo tema ha dedicato gran parte della sua ricerca filosofica – fa notare anzitutto come il termine gioco venga impiegato per descrivere attività invero molto differenti. Ai poli opposti del grande spettro del ludos troviamo, da un lato, qualcosa di trasgressivo e senza scopo come il libero gioco di ≪una bambina di due anni che entra in una stanza […] piena di oggetti sconosciuti≫ con i quali sperimenta a più non posso; e dall’altro qualcosa che risulta invece molto ben codificato e con un obiettivo noto a chiunque, come può essere il gioco del calcio o quello degli scacchi.
Neppure la contrapposizione tra “cose serie” e “cose divertenti” (nel senso di frivole) sembra esserci d’aiuto nel definire il concetto di gioco, dato che – afferma Bencivenga citando l’Homo Ludens di Huizinga – ≪bambini, calciatori, scacchisti giocano con la massima serietà senza la minima tendenza a ridere […] L’autentica, spontanea mentalità del gioco può essere solo quella della profonda serietà≫.

In cosa possiamo riconoscere allora il gioco, se ci è impossibile distinguerlo per ambito o atteggiamento? Possiamo riconoscerlo nel suo rapporto con il microcosmo che lo presiede, più precisamente nello spazio che va originandosi fra le “regole” del contesto in cui ci troviamo: lo spazio ludico. Da questo punto di vista, più che una specifica attività umana, il gioco è un aspetto possibile di ogni attività, determinato di volta in volta dalla capacità di manovra di cui disponiamo in base alla situazione.
La differenza tra ciò che è gioco e ciò che non lo è sfuma così irrimediabilmente; solo il velo delle nostre convenzioni (e convinzioni) culturali ci impedisce di vedere la sfera lavorativa e quella ludica come due microcosmi in grado di coesistere. Abbandonando gli “occhiali normativi”, dice Bencivenga, ci apparirà chiaro che ≪la realtà ‘seria’ non è che un gioco senza alternative riconosciute≫ e che ≪Il lavoro è la realtà di chi non vive le sue regole come una scelta≫. È infatti il contesto di estrema rigidità in cui collochiamo il lavoro, proprio perché dal lavoro – giustamente – non si pretende altro che la serietà, a disinnescare ogni possibilità ludica, ogni slancio immaginativo, privandolo così del senso di libertà e trasfigurandolo spesso in una routine fiacca e noiosa.
Ma cosa succede se proviamo a smussare i contorni di quel contesto per renderlo più flessibile? Immaginiamo di togliere la seccante insistenza dei ritmi lavorativi, dei turni, degli orari; eliminiamo anche le pressioni del caporeparto e la difficoltà a doversi relazionare con i colleghi che non ci vanno particolarmente a genio; aggiungiamo infine la possibilità di scegliere in completa autonomia, senza assilli di alcun tipo, a cosa dedicarci durante la giornata. In una parola: rimuoviamo dal lavoro la sua necessità.

È sufficiente modificare la cornice, anziché il lavoro in sé, per ottenere qualcosa di profondamente diverso, qualcosa in cui riconoscere magari proprio uno spazio ludico. Ed è esattamente questo che fanno i videogiochi simulativi, conferendo all’esperienza lavorativa anzitutto la libertà di non doverla prendere sul serio; la libertà di pensarla come un’alternativa fra le tante. Il solo fatto di poter smettere in un qualunque momento perché si ha voglia di fare altro ci fa intuire la presenza dei microcosmi che silenziosamente ci circondano, ognuno gioco a modo suo, e in ciò affiora la nostra capacità ludica.
Così riscopriamo, persino nelle cose più ordinarie, l’esaudirsi di una promessa: quella di poter sperimentare con ciò che abbiamo intorno, di improvvisarci in qualche sfida, di trasgredire ancora una volta, proprio come fa la bambina di cui parla Bencivenga. Credo che il fascino dei videogiochi simulativi stia tutto qui: nella loro capacità di sottrarre il lavoro al suo contesto rigido per riportarlo a una naturale dimensione ludica. Nessuno ha mai detto che guidare un camion per mezza Europa o arare un campo in vista della semina non possa essere divertente, è che non c’è spazio per il divertimento nel modo in cui è previsto che lo si faccia.