Ci sono sempre più videogiochi, ma non abbiamo il tempo di giocarli

Nell’epoca del multimediale, dei servizi in abbonamento e dei cataloghi on demand trovare il tempo per dedicarsi alle proprie passioni potrebbe risultare un’impresa insospettabilmente difficile. Le grandi aziende che operano nel settore dell’intrattenimento competono strenuamente per conquistare l’attenzione del pubblico, dando luogo a un vero e proprio fenomeno di sovrapproduzione culturale che ha interessato sempre più anche i videogiochi.
L’espansione del mobile gaming e il successo di un servizio come il Game Pass, che negli ultimi mesi ha visto la pubblicazione di titoli come Starfield, Lies of P e Forza Motorsport, sono solo alcuni dei fattori che hanno ampliato e reso più semplice l’accesso al mezzo videoludico. E oggi più che mai, scegliere di giocare a qualcosa significa anche, necessariamente, scegliere di non giocare a qualcos’altro.
A quanti videogiochi ci si può dedicare in un anno? L’edizione 2023 di Milan Games Week si è rivelata un’occasione per poterlo chiedere direttamente ad alcuni di voi, e anche se non possiamo certo parlare di un campione utile ai fini statistici, il reportage che abbiamo svolto alla nota fiera milanese ci aiuta a comprendere, se non altro, in che modo ci si relazioni a questa offerta videoludica decisamente sovrabbondante.
Il tempo libero e il tempo del lavoro
Nella frenesia di una società totalmente asservita alle logiche di consumo, e che tende pericolosamente alla deriva dell’intrattenimento a tutti i costi, alle volte può bastare una semplice, e per questo inconsueta domanda a risvegliare un barlume di speranza sull’uso che si fa del proprio tempo libero. Espressione, quest’ultima, che merita già un’attenzione particolare: il filosofo sudcoreano Byung-chul Han osserva infatti ne Lo Sciame – Visioni del Digitale come oggi ≪non abbiamo altro tempo all’infuori di quello lavorativo: ce lo portiamo dietro, così, non solo in vacanza ma anche nel sonno≫. Cos’è dunque il tempo libero se anche ≪rilassarsi non è l’Altro del lavoro, ma il suo prodotto≫?
La disamina di Han forse pecca di radicalismo, ma riesce senz’altro a cogliere come all’atteggiamento di consumo spasmodico che caratterizza il nostro modus vivendi faccia riscontro più la logica lavorativa che quella ricreativa propria dello svago. L’industria culturale si erge su un mercato vorace, affastellato di prodotti pensati ad hoc per i consumatori e costantemente attraversato dal brusio dell’hype culture, dove è sostanzialmente divenuto un lavoro persino decidere come investire il proprio tempo libero, pena la terribile sensazione di rimanere esclusi da qualcosa di importante.
Chiedersi a quanti videogiochi è possibile giocare in un anno fa riflettere sul fatto che, al contrario di quanto vorrebbe la società dell’intrattenimento, non siamo affatto immuni ai meccanismi delle routine e che pertanto non è possibile consumare ogni prodotto ci venga messo davanti agli occhi con il solito battage mediatico e la promessa di un’esperienza imperdibile (escludendo da questo discorso tutte quelle produzioni più piccole che altrettanto imperdibili potrebbero essere ma che non hanno certo fondi da investire nel marketing per farcelo sapere).

Senza troppe sorprese, alla nostra domanda in molti hanno risposto di riuscire a giocare (e completare) solamente tre o quattro titoli l’anno, indicando il lavoro come principale impedimento. C’è chi cerca esperienze nuove tra le ultime uscite, chi torna ciclicamente sui videogiochi che più ha nel cuore, o chi invece si dedica a giochi competitivi o game as a service come Call of Duty e League of Legends, ma tutti, in ogni caso, faticano a trovare il tempo per videogiocare quanto vorrebbero.
C’è poco da fare: vuoi per la giovinezza del medium, vuoi per la sua natura ludica, il videogioco è una passione che si tende a scoprire da piccolissimi, e il cui amore si sostanzia spesso proprio di quei pomeriggi passati a girovagare senza meta nei mondi virtuali che ci sono costati, con ogni probabilità, i rimproveri dei genitori.
La promessa (pur sempre illusoria) di libertà incondizionata che soggiace a ogni universo videoludico, dove ci si sente padroni del proprio tempo e del proprio spazio, è tanto più esaudita quanto più tempo reale disponiamo e possiamo quindi investire, ma con il sopraggiungere degli impegni dell’età adulta, rischia di tramutarsi in una trappola: un meccanismo che promette l’infinito in un mondo – quello fuori dallo schermo – che ha ormai mostrato tutti i limiti della sua finitezza.
Quanto giocano gli sviluppatori?
Verrebbe spontaneo, a questo punto, chiedersi come se la passa chi invece ha fatto dei videogiochi la propria professione, e per questo abbiamo deciso di fare due chiacchiere anche con gli sviluppatori di Volcanite Games, che nell’occasione della Games Week ci hanno presentato anche il loro interessante progetto: Gambit Shifter, un puzzle game ispirato al gioco degli scacchi dove si controlla una singola pedina in grado di trasformarsi, a seconda delle esigenze, negli altri pezzi.
≪Quando inizi a sviluppare – ci racconta Alessio, game designer e co-founder di Volcanite Games – il giocare diventa un po’ diverso, […] è più quasi una ricerca di reference, di conseguenza magari il numero di videogiochi aumenta, ma vai a giocarli per molto meno tempo≫. Alla base di un lavoro come questo, d’altronde, vi è il confronto con altri videogiochi, confronto che esige spesso un consumo frenetico e in ottica per lo più analitica di altre opere.
Così il conteggio annuale può arrivare a quota quindici, ma escludendo tutti i videogiochi “consultati” a scopo lavorativo, e per questo raramente finiti, si torna a un numero compreso tra i quattro e i sei titoli, non molto dissimile da chi fa tutt’altro di lavoro.
In linea di massima, dunque, anche quando la sfera lavorativa coincide con quella videoludica, non ci si può aspettare che le impellenze della vita adulta si facciano da parte per riconsegnare la passione per i videogiochi al suo atavico splendore di un tempo percepito come illimitato. Anzi, in questa singolare circostanza, il videogiocare muta in qualcosa di strano, che forse non è più né gioco né lavoro: uno stato liminale in cui le due realtà coabitano intrecciandosi irrimediabilmente e in cui lo sviluppatore si addentra per trarne qualcosa che possa risultare bello o interessante per chi condivide la sua stessa passione. Una sfida niente affatto semplice.
Game Pass, sovrabbondanza e binge gaming
Fatta salva la distinzione tra lavoro e tempo libero, e il conseguente restringimento di quest’ultimo dovuto al “diventar grandi”, non si può certo ignorare quanto oggigiorno l’approccio al videogioco sia influenzato anche – e in maniera del tutto imprevedibile – dai grandi cambiamenti che si stanno verificando nell’industria. L’ondata di licenziamenti che si è riversata sulle grandi compagnie nell’anno appena concluso ci parla proprio di un settore che inizia a fare i conti con un assillante problema di sostenibilità. È evidente che qualcosa dovrà cambiare, ma come?
Una via può essere quella introdotta dal Game Pass, servizio di cui non si può fare a meno di parlare quando si tocca l’argomento fruizione di videogiochi. Già l’espansione del cloud gaming, scorrendo sul piano inclinato della rivoluzione digitale, ha fatto emergere una nuova filosofia del videogiocare che – dobbiamo usare ancora il condizionale – potrebbe irrompere definitivamente nella quotidianità di molti con il miglioramento delle infrastrutture; ora il servizio in abbonamento di Microsoft, reso ancor più allettante dopo l’acquisizione di Activision-Blizzard, guarda ad un pubblico di appassionati sempre più eterogeneo promettendo loro un’infinità di esperienze videoludiche.
A tal proposito, gli intervistati nel nostro reportage hanno riferito di apprezzare il Game Pass e di considerarlo un servizio sostanzialmente positivo tanto per l’industria quanto per i videogiocatori. Pur essendoci chi teme per la scomparsa del mercato fisico, il modello di distribuzione messo a punto da Microsoft fa sempre più gola, non solo per la quantità di videogiochi di cui consta, ma anche per il prezzo che questi hanno fuor di catalogo. Non si può certo negare che il Game Pass rappresenta anzitutto un’alternativa più economica al tradizionale acquisto singolo; convenienza che però, lo si intuisce facilmente, è tale solo per i videogiocatori “incalliti”, e non per chi si concede al massimo tre o quattro titoli l’anno.
Del resto, il Game Pass non fa che riportare in vita l’ennesimo grillo fanciullesco: chi, da piccolo, non ha sognato di trovarsi tra le mani un catalogo pieno di videogiochi diversissimi tra cui poter scegliere? Ancora una volta la proposta di un intrattenimento incondizionato si scontra con la realtà di una vita troppo frenetica e bombardata da una moltitudine di stimoli. Se dallo zapping televisivo siamo passati al binge watching di Netflix, con il Game Pass la deriva del binge gaming assume innegabile concretezza, e getta un’ombra potenzialmente soverchiante sul concetto di scoperta che, paradossalmente, sembra stare alla base proprio di un servizio come questo.
Il rischio è appunto quello di passare ore solo per decidere a cosa giocare, o di abbandonare esperienze cominciate per cui non è scattata subito la scintilla. È un fenomeno che riguarda le modalità con cui i videogiochi ci “tirano dentro il loro cerchio magico” – per prendere in prestito le parole che Calvino usava per descrivere la macchina romanzesca – e su come noi ci relazioniamo ad esse. Perché molto spesso i tempi videoludici non combaciano con i nostri, e se ci si fa prendere dalla frenesia del tutto e subito perché il tempo a disposizione è poco e le alternative (appaiono) irresistibili, allora non si arriva nemmeno a comprendere, tante volte, cosa un gioco voglia dirci.
Riuscire a vincere l’inerzia delle fasi iniziali, spesso accomodanti, vincere – soprattutto – l’impazienza, la smania per una soddisfazione immediata e abbandonarsi all’esperienza senza pretese, ma con la voglia di essere stupiti: solo a patto di preservare questo diritto alla curiosità il Game Pass può rivelarsi uno strumento incredibile. E in questo, forse, riassume un po’ la sfida del nostro tempo storico, quella tra la sovrabbondanza dei prodotti culturali e la sempre minore disponibilità del nostro tempo.