Analisi culturali dei videogiochi – Intervista a Francesco Toniolo

Fin da quando ero bambino, io ho sempre amato tantissimo leggere. Ogni anno, per la grande gioia di tutte le statistiche ISTAT, io leggo più di duecento romanzi e libri in generale, fumetti esclusi. Sono laureato in lettere, e il mio percorso di dottorato si è inserito negli studi umanistici. Fatte queste premesse quindi, perché sono qui a parlarvi di videogiochi? Perché per me anche il videogioco rientra nella cultura, e parlo proprio di quella cultura con la C maiuscola.”
Questa è stata l’introduzione fatta da Francesco Toniolo per il suo contributo a TedxReggioEmilia, il 6 aprile 2019.
Professore universitario che ha fatto dei videogiochi una vera e propria materia di insegnamento. Saggista di libri a tema videoludico, come l’imminente “Guida ai videogiochi. Tecniche, storie, immaginari” che verrà presentato a Lucca Comics & Games 2023, o il nuovo arrivato “Interpretare Elden Ring”, considerabile come il terzo capitolo di una serie iniziata con i saggi “Queste anime oscure” e “Le nuove anime oscure” che hanno posto le basi per la seguente intervista.
Saggi che trattano approfondimenti su temi scelti presenti nei videogiochi di FromSoftware, i titoli che hanno reso questa azienda celebre e impattante negli ultimi quattordici anni.
La lore dei “Souls” può comunicare un significato più grande di quella storia che racconta in silenzio. Osservazioni che generano altrettante domande, da porre allo stesso autore di questi libri.
Prima domanda, veloce, apparentemente banale ma non lo è: come state? Come va questo periodo?
Molto bene, sempre pieno di novità, essendo insegnante in diversi corsi e in diversità, principalmente alla Cattolica di Milano. La novità più grande è che inizierò a insegnare anche in un corso di marketing, che va ad unire varie cose fatte negli ultimi anni. Da un lato tutta la parte dell’insegnamento universitario, in particolare quello dei corsi per le industrie creative in generale, dall’altro una serie di cose extra che ho fatto riguardanti il marketing.
Molti pensano erroneamente che il marketing sia soltanto la comunicazione finale del prodotto da vendere, ma in realtà è un percorso strategico più ampio pensato fin dall’inizio.
Ho svolto attività nella fase comunicativa, che è parte della strategia di marketing, anche divertente, considerando che ho lavorato anche per il marketing di Serenity, un’azienda che vende prodotti per l’incontinenza urinaria.
Introduzione meravigliosa che fa il paio con l’esperienza da me avuta in occasione del nostro primo contatto, quando lei ha condiviso l’articolo “Videogiochi e libri – Il paragone (azzeccato) inaspettato” Chiesi a Daniele (Lux) e Federica (Rhyme) di ArcadiaCafé se ci fosse il loro zampino, e mi risposero: “No no. Lui osserva tutto, mentre legge ottantasette libri e gioca a Peppa Pig.”
Ogni tanto prendo anche questi giochi un po’ particolari, mi diverto a sperimentare. Del resto, tutto è utile; più cose si conoscono, meglio è, andando a volte a guardare anche dove gli altri non guardano più di tanto. Quindi anche nel videogioco di Peppa Pig.
Lei iniziò il suo intervento al TedxReggioEmilia affermando di leggere ogni anno più di duecento romanzi e libri in generale, fumetti esclusi. E’ incredibile. Come ci riesce?
Lo chiedono in tanti. Facciamo anche una premessa: negli ultimi due anni ho ridotto un pochino perché ho studiato molti videocorsi, quindi rientra comunque in un’ottica di studio, ma non è la lettura del libro, per cui ho effettivamente un po’ abbassato il numero.
Ho smesso di tenere un conteggio esatto, potrebbe essere sui 140-150, fumetti esclusi. Come ci riesco? Innanzitutto leggo velocemente, che a volte è una condanna. Per esempio sono stato a Genova venerdì scorso, per un incontro, e ho comprato un libro da leggere in treno durante il viaggio di ritorno. L’ho terminato a metà del tragitto.
Non c’è nessun potere magico o mistico, ho sempre letto tanto ed è semplicemente una questione di abitudine. Esiste poi tutta una serie di studi che si possono fare per aumentare la velocità di lettura, riguardanti il movimento oculare.
Noi facciamo dei movimenti saccadici e delle cosiddette fissazioni, quando il nostro occhio si ferma su una riga un po’ più a lungo. Il trucchetto è ridurre il numero delle fissazioni, per cui coloro che fanno la lettura veloce, quella pura, puntano l’occhio sul centro della riga e riescono a cogliere l’insieme.
Non è una lettura piena, parola per parola, però va anche considerato che dopo aver letto l’ennesimo libro dello stesso genere, in molti punti si va anche un po’ col pilota automatico. Con l’ennesimo libro sui videogiochi o i romanzi di consumo viene effettivamente da leggere velocemente.
Poi ci sono anche casi in cui mi piace fermarmi un po’ di più, andare con calma, specialmente con i libri più complessi che non conosco. Potrei leggere velocemente, ma in quel caso non capirei niente.
Nei suoi video si introduce come “professore universitario esperto di videogiochi”, eppure nei corsi universitari elencati nel suo sito ufficiale, sono presenti anche corsi quali “Cultura di gioco”, “Storia e critica del videogioco”, “Game Culture”… Più che “esperto di videogiochi”, lei ha proprio fatto dei videogiochi una materia universitaria.
Aveva già inserito Mass Effect nella sua tesi magistrale, tra l’altro in un periodo (essendo un classe ’90, intorno alla metà degli anni 2010) in cui persino i moderni content creator erano agli albori, ma quand’è stato che ha davvero capito di poter effettivamente inserire i videogiochi nell’insegnamento?
La strada era già stata tracciata, qualcuno che andava in quella direzione già c’era, anche in Italia. Figura storica in questo senso è Matteo Bittanti, tuttora insegnante all’università IULM e che ha insegnato anche negli Stati Uniti.
Idealmente c’era l’idea che questo fosse possibile, non pensavo che sarei stato io a farlo, anche se mi ha fatto piacere, di recente, incontrare un vecchio collega dell’università che mi ha ricordato di aver profetizzato a suo tempo che sarei finito a insegnare questo.
Il sogno personalmente c’era, l’ho anche applicato nel dottorato, ma finché non ho avuto un mio corso, optavo per il piano B.
Per alcuni questo è un ottimo approccio alla vita, per altri è sbagliato e pensano che bisognerebbe puntare tutto sull’obiettivo principale. Io ho sempre avuto il mio focus e finora sta andando bene, ma ho preferito avere anche le spalle coperte.

Passiamo alle domande sui suoi libri, partendo proprio dal primo capitolo di “Queste anime oscure”, ovvero “Astrea. Corruzioni sacrali”. Stia tranquillo, non ho intenzione di farle domande su ogni capitolo dei suoi libri.
Non ci sarebbe comunque alcun problema. Finché ho voce, rispondo.
Innanzitutto, complimenti e congratulazioni: mi ha fatto venire voglia di rigiocare Demon’s Souls, per via di questa chiave di lettura sulla Valle della Corruzione: Astrea paragonata alla Vergine Maria; figura santa in un luogo marcescente, oppure simbolo di una sacralità corrotta.
Fa il paio con i capitoli VIII e IX, riguardanti due aspetti che Dark Souls II ha in comune con Demon’s Souls, ovvero significati molto interessanti nonostante una lore poco chiara, e difetti nell’interconnessione delle aree (Demon’s Souls giostra con il Nexus e le Arcipietre, ma l’insieme del regno di Boletaria, con aree così diverse, resta poco chiaro)
La critica tende a sorvolare su videogiochi che peccano nella componente narrativa ma eccellono in gameplay, level design, ecc. Sarebbe accettabile una critica che premia l’inverso? Ad esempio, Demon’s Souls e Dark Souls II con i loro valori allegorici, morali e semiotici, nonostante i problemi di lore e di world design. Oppure sarebbe una critica troppo soggettiva?
Punto interessante Forse c’è da fare una suddivisione: da un lato quella che è l’interconnessione in sé, dall’altro quello che è il giudizio su questo elemento.
Noi abbiamo questa vertigine della mappatura che ritroviamo nei videogiochi, soprattutto dopo che certe esperienze ci hanno abituato in questo senso.
Nel cinema c’è chi l’ha definita un elemento di angoscia cartografica. In un bel libro di Giorgio Avezzú viene spiegato, in breve, come per via dei satelliti che ci permettono di osservare qualunque cosa, ci troviamo in realtà davanti a dei nuovi interrogativi su quella che viene meno come interpretabilità.
Quando c’è una determinata mappa che rappresenta un territorio, e non vi corrisponde, si viene a creare appunto questa angoscia.
Abbiamo una visione diversa su quella che è la mappa rispetto a quello che è stata in passato. Ad esempio, nel libro “Cuore di tenebra”, capolavoro di Joseph Conrad, il protagonista dice che da bambino guardava per ore e ore gli spazi bianchi delle mappe geografiche del mondo, sognando cosa poteva esserci nei territori all’epoca inesplorati. Oggi invece, permane solo la frontiera dello spazio.
Il discorso dell’interconnessione è relativo sempre a un elemento di paragone. Prendendo ad esempio Dark Souls, siamo davanti a un mondo che non è solo interconnesso, ma presenta anche diversi scorci improvvisi che fanno capire effettivamente dove è collocato un certo elemento rispetto agli altri. Dal Santuario del Legame del Fuoco si scorge il Borgo dei non morti in alto e parte della Valle dei Dragoni in basso; nella Tomba dei Giganti è visibile Lost Izalith. Persino l’invisibile è interconnesso: percorrendo il fiume che passa sotto la Fortezza di Sen, uscendo dalla mappa, si scopre che sfocia nella cascata presente nelle catacombe.
Se prendiamo questo come elemento di paragone, il mondo di Dark Souls II è totalmente scombinato, scompaginato, e quello di Demon’s Souls non è intelligibile.
Detto ciò, arriviamo anche da una lunga serie di tradizioni videoludiche, dove questa cosa è perfettamente normale, dove nessuno si è mai posto interrogativi a riguardo. Il classico esempio della mappa di Super Mario che mostra un mondo assurdo, con la montagna attaccata alla spiaggia; la neve e subito dopo il mare col sole tropicale. Distanze che non hanno alcun senso, alcun corrispettivo.
Ma va bene così, perché siamo davanti a quella che è un’esperienza di altro genere, in cui quella mappa assume determinate caratteristiche.
Per cui sì, c’è un elemento di soggettività ma non tanto nel fatto di dare un peso differente a questi aspetti della mappa, quanto al cambiamento in base al contesto in cui si va a inserire questo discorso.
Vorrei prendere questa faccenda dell’interpretabilità per collegarmi al capitolo “Orizzonti e limiti nei Souls” presente in “Le nuove anime oscure”. Innanzitutto le faccio di nuovo i complimenti, perché il paragone degli orizzonti videoludici con “L’infinito” di Leopardi è un perfetto esempio per spiegare come i videogiochi possono essere cultura, ma tenendo conto di come l’utenza sembrerebbe non averne mai abbastanza di qualsiasi opera di fantasia, gli orizzonti videoludici sono ancora leciti?
Di nuovo, c’è da ragionare su questo da varie prospettive.
Partiamo anche un po’ da quella che è un’ottica di marketing, visto che effettivamente l’abbiamo citato prima. È chiaro che in questo senso io creatore di qualcosa, non solo di un videogioco, devo puntare il più possibile a mantenere su di me l’attenzione, poiché la grande competizione si basa su questo, conseguentemente porta anche soldi.
Perché abbiamo davanti questa moltiplicazione incontrollata di sequel, prequel, reboot e remake? Perché è più facile vendere a qualcuno che è stato già indirizzato in un certo modo, dando qualcosa in più all’interno di quell’universo narrativo.
Spostandosi su un’altra questione, c’è effettivamente questa questa fascinazione per per il confine, per il limite che ha delle caratteristiche molto interessanti, ovvero il fatto che anche il videogioco più ampio possibile è comunque uno spazio chiuso.
Questo ha varie implicazioni. Prima di tutto, il fatto che quell’elemento di chiusura sia esplorabile. Un infinito completo. Si sa che rimarrà sempre qualcosa tagliato fuori, ma implica anche il fatto che quel mondo, almeno idealmente, è più vasto.
Ci sono cose che non vengono presentate su cui si può speculare, tanto più se ce n’è un indizio. In questo senso possiamo riprendere la bella poesia di Giacomo Leopardi, appunto de “L’infinito”.
“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”
Immaginando di sedersi davanti a questa siepe che ha la doppia valenza di quello che è lo schermo. Questo riflessione che non è mia ma di Mauro Carboni, nel libro Filosofia-Schermi, dove viene spiegato che il termine “schermare” vuol dire coprire, proteggere, anche nascondere. Ma lo schermo è anche ciò su cui io proietto, esattamente come la siepe di Leopardi, così come il confine videoludico.
“Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo”
In un videogioco, vedere qualcosa in lontananza, leggere qualcosa su di un contesto invisibile, può far aprire un mondo.
“E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando”
Questo e quello, il vento che c’è qui, con l’infinito silenzio che c’è di là. E’ un gioco di scambi, come tutti quei discorsi che si fanno in questi videogiochi. Ad esempio, in Elden Ring cosa c’è oltre l’interregno? Perché è “Interregno”? Il nome indica che sta in mezzo a qualcosa, ma in senso orizzontale o verticale? O entrambe le cose o in un altro senso extra dimensionale?

Personalmente trovo che nell’analisi della lore, l’utenza dia troppo peso al vedere persino la punteggiatura nelle descrizioni, e poco al loro significato. Non si rendono conto che i “Souls” sono un’allegoria: perché il fuoco fa questo effetto? Perché l’oscurità funziona in questo modo? Perché Aldrich diventa gelatina? Semplicemente perché quel mondo fantasy funziona in un determinato modo. Ciò che conta è cosa sta a significare concretamente tutto questo.
Sono d’accordo, anzi posso aggiungere che è anche la ragione per cui ho voluto scrivere “Interpretare Elden Ring”, il cui intento è dichiarato fin dal titolo. Sulla lore si è detto tantissimo, si hanno anche delle interpretazioni che ora vanno raccolte e commentate, integrate, ampliate.
Bisogna giustamente prima di tutto capire che cosa il gioco vuole dire. Ad esempio, chi è Malenia? Perché ha fatto questo? Perché combatte Radahn? Una volta noti questi elementi, che cosa vuole dire il gioco? Che cosa sta dicendo Hidetaka Miyazaki? E lì sta, secondo me, la vera sfida.
Leggendo il capitolo “Artorias: un cavaliere arturiano” mi sono domandato: “e se Artorias fosse invece un Cavaliere Oscuro?” Da qui è partito un parallelismo con la trilogia cinematografica di Batman di Christopher Nolan (Artorias, più che il Cavaliere Oscuro, è Harvey Dent), mi sono chiesto però quanto tale parallelismo potesse essere valido.
Questo mi ha fatto collegare al capitolo “Anri di Astora: una rilettura tra fiaba e alchimia”. Tra le tante nozioni che lei possiede, com’è arrivato a pensare proprio all’alchimia in relazione con la storia di Arni? E come ha fatto a ritenere valido questo parallelismo?
Che Miyazaki abbia attinto in modo episodico, e anche randomico, a volte da tradizioni occidentali di vario genere, è dichiarato anche in alcune interviste. In altre no, però sono comunque abbastanza comprensibili i riferimenti.
Un certo discorso alchemico c’è. Cosa rappresenta cosa, nel caso di di Anri? In realtà, siamo davanti, in alcuni casi, a quelle che sono dei parallelismi culturali, e non un elemento citato. Quindi è una mia considerazione su quella che però è una lettura che effettivamente funziona.
L’alchimia è una grande chiave di lettura universale, infatti è stata applicata a tutta una serie di letture nel tempo, anche sulle fiabe, per esempio. Le fiabe Alchemiche hanno una lunga tradizione a riguardo.
Non dico che Hidetaka Miyazaki e FromSoftware avevano in mente questa cosa, però è curioso che in un contesto dove comunque delle tracce alchemiche ci sono, si possa fare tutta questa serie di legami che portano a vedere questo personaggio in questo modo, tanto che esso finisce anche per avere delle nozze mistiche e anche lì, l’alchimia c’è. L’elemento delle nozze alchemiche, unione tra elementi materici
Siamo davanti a quella che è una pluralità di interpretazioni. Qui come altrove, se qualcuno vuole affermare che i “Souls” hanno un unico significato, gli consiglierei di pensarci un attimino, persino se lo dicesse Miyazaki stesso.
Come insegnano anni di critica, quella che è la volontà dell’autore non esaurisce quella che è l’interpretazione dell’opera, che porta anche a volte a degli usi impropri.
L’interpretazione deve comunque seguire determinate indicazioni poste dall’autore in modo più o meno indiretto. Potrei prendere un romanzo rosa e leggerlo come un libro di cucina? Sì, ma sarebbe un’interpretazione probabile? Probabilmente no.
Mi torna in mente la mia visita agli Uffizi fatta durante un weekend a Firenze, lo scorso febbraio. Ho notato che una volta entrati nella sala del Botticelli, non serve essere un esperto d’arte per capire quale quadro è la Primavera: basta vedere quanta gente vi è ammucchiata davanti, nonostante quest’opera non abbia un significato preciso.
Esatto, il significato della Primavera non è chiaro. Ci sono varie interpretazioni accreditate, ma sono quelle opere, come la Tempesta di Giorgione o la Vergine delle Rocce, con la loro molteplicità di interpretazioni, che spesso ci portano anche verso elementi esoterici.
Quindi sicuramente sì, esistono anche opere che alla fine non sapremo mai effettivamente cosa volevano dire nella mente del creatore e del committente (in quel caso era molto importante, da tenere in considerazione) ma questo non esaurisce il discorso che si può fare su di essi.
Umberto Eco se n’era reso conto quando iniziavano a leggere “Il nome della rosa” come un’opera massonico-esoterica per iniziati.
Quindi posso andare tranquillo riguardo l’articolo su Artorias e Il Cavaliere Oscuro?
È un parallelismo. Non tutti i confronti che si vanno a fare sono necessariamente legati a rapporti di filiazione diretta.
Se si parla, per esempio, di un videogioco FromSoftware in relazione con Ico, lì c’è un rapporto diretto, perché Hidetaka Miyazaki ha dichiarato che Ico gli ha cambiato la vita, quindi si sa che l’ha giocato, che è un gioco importante per lui, per la sua formazione, e nei videogiochi da lui realizzati successivamente ci sono anche forme di comparazioni tematiche.
Opere differenti in contesti differenti hanno portato avanti, in modo simile, un determinato tema.
Si fanno tante considerazioni in questo genere in ambito artistico e anche letterario. Parallelismi su opere che non si parlano direttamente tra di loro, ma toccano un argomento. Mi viene in mente un testo di Giorgio Barberi Squarotti sulla caccia nella letteratura.
Altre volte ci sono casi dove non c’è questo dialogo. Può valere la pena capire come autori diversi in contesti differenti, anche in periodi diversi, hanno portato avanti un certo discorso.

A proposito di validità, il secondo capitolo di “Queste anime oscure” tratta della celebre difficoltà di questi videogiochi, e mi ha portato a una riflessione di carattere culturale sulla difficoltà. I “Souls” sono stati impattanti anche per il proporre una difficoltà del genere in un momento dove i videogiochi erano diventati piuttosto facili, ma quanto il contesto socio-culturale può determinare l’analisi della difficoltà? E’ possibile che un elemento di sfida che in Giappone possono ritenere lecito, in occidente venga ritenuto scorretto?
Molto spesso nelle situazioni che i “Souls” ci pongono davanti, almeno nel primo Dark Souls, è difficile trovare qualcosa che sia effettivamente unfair.
C’è la Culla del Caos che tutti citano, ma perché? Perché inserisce un elemento che è esterno a quanto giocato fino a quel momento, ovvero un elemento randomico che non è previsto fin lì. Oppure casi in cui affrontare i nemici con determinate build è più complesso del dovuto.
Su tutta un’altra serie di punti, però, siamo davanti effettivamente a quelli che sono dei tutorial progressivi.
Vi è poi una questione della prospettiva che fa sembrare piccoli i nemici grossi, la prima volta che si incontrano. Lì, in effetti, è un po’ fregatura voluta, ma non è sbagliata: ti invita a correrci incontro. Non so se sei mai stato in una grotta di quelle grandi, dove ti dicono: “qualcosa laggiù è grande venti metri.” Ma a te sembra un pirulino, perché non hai elementi di paragone con la prospettiva.
Sono elementi cattivelli in videogioco, però messi in un modo da avere una progressione.
Questo è stato un problema su Elden Ring, per via dell’apertura del mondo molto più considerevole.
Si torna al tuo discorso, essendo andati a insistere in questo titolo su cose che sarebbero impossibili da da scoprire senza una community, ma ora siamo su un altro elemento di difficoltà ed è principalmente una di quelle difficoltà che io definisco operative.
Certamente in Dark Souls e dintorni non c’è mai solo l’operatività, ma anche sempre quella che è la questione segnico-nozionistica e ermeneutica interpretativa. Bisogna capire che cosa sono gli elementi che ci circondano, metterli al sistema e poi agire concretamente.
Nel caso di quelli che sono riflessioni sulla lore siamo in un ambito prettamente ermeneutico interpretativo, anche quella è una forma di difficoltà. Una delle sfide più interessanti, perché è un grande gioco interpretativo, altrimenti Sabaku e tutte le altre persone non si sarebbero messi in gioco in questo senso.
Questo gioco collettivo per cui l’intera community si mette insieme senza che un singolo giocatore diventi pazzo.
In un bel capitolo del Dark Souls Companion viene rievocata l’esperienza dei giornalisti che avevano provato Dark Souls prima dell’embargo
È citato anche nel suo libro. Lo scambio continuo di mail tra giornalisti che stavano provando il gioco in anteprima, al fine di aiutarsi per proseguire e riuscire a recensirlo onestamente
Esatto, c’era gente che dopo giorni non riusciva a sconfiggere i Gargoyle della Campana, oppure chi si sorprendeva di aver scoperto un’intera nuova area dietro un muro invisibile.
In un mondo ipotetico in cui Dark Souls fosse uscito prima di Internet, ci sarebbe stato da divertirsi, e la guida strategica sarebbe stata quasi obbligatoria.
E quante leggende metropolitane si sarebbero create! Io e te siamo quasi coetanei, sei solo di un anno più giovane, perciò ricorderai le leggende metropolitane che giravano quando frequentavamo le scuole elementari.
Leggende sui livelli del Super Sayan in Dragon Ball, o sul battere cento volte la Lega Pokémon.
I trucchi di Dragon Ball GT: Final Bout che non funzionavano fu la delusione di una giornata. Sul battere cento volte la Lega Pokémon, scemo io che all’epoca gli detti credito
Ma anch’io! Tenendo conto che giocavamo a ripetizione certi videogiochi.
A parte questo, saremmo stati in un contesto che da un lato viene addirittura da rimpiangere, perché in quel caso sì che si avrebbe un senso della scoperta che lascia senza respiro, ma dall’altro lato il contesto attuale è un grosso aiuto, in quanto permette di passare tranquillamente su quelli che sono gli step successivi e concentrarsi su altro.
Per chiudere il discorso: quanto tenere conto della cosa da un punto di vista culturale? Dipende, mi verrebbe da dire. È un discorso che possiamo approcciare in tanti modi, ma ripeto che non trovo i “Souls” così scorretti, tant’è che si ha anche modo di approcciare questi titoli in vario modo.
Infatti i puristi etichettano tutta una serie di modi come fossero cheating, come scegliere la classe del Nobile in Demon’s Souls che ha l’anello per ricaricare i punti magia.
In tutti i “Souls” c’è una scalabilità. Se un giocatore impiega troppo tempo per imparare a combattere, alla peggio può livellare, chiedere aiuto online, evocare fantasmi, ecc. Tutta una serie di cose che queste persone possono decidere di usare o meno. Forse ci si è soffermati fin troppo sugli aspetti sbagliati della questione.
Una modalità facile? Non saprei, a meno che non si tratti delle opzioni di accessibilità, come quelle per ipovedenti, daltonici.
Ricordo di una persona con disabilità che riusciva comunque a giocare Resident Evil 5, desiderando però un’opzione per disattivare i QTE (Quick Time Event). In quel caso sarebbe comprensibile, dopotutto che senso ha chiedere di premere ripetutamente un tasto al giocatore? Forse solo per un tentativo di immedesimare nello sforzo fatto dal personaggio giocante.

Lasciamoci alle spalle discorsi sulla validità di certi elementi, e passiamo a un autore citato in “Queste anime oscure” che mi ha colpito particolarmente: Carlton Mellick III. Non so quanto io possa essere effettivamente interessato alle sue opere, per quanto non disprezzi del tutto il trash (di recente ho giocato Eternights e lo ritengo una piccola perla) ma ho apprezzato il modo in cui lei le ha analizzate.
Sembrerebbe trattarsi di pop culture, o pop art. Partire da un elemento popolare per arrivare pian piano a qualcosa di culturalmente importante. Un esempio fatto da Federico Frusciante con il cinema: se si propone un film d’autore a un ragazzo che vede solo film della Marvel, è facile che questo lo rigetti. Bisognerebbe andare per gradi.
Ad esempio, io sono un amante di Bloodborne e ho scoperto Lovecraft tramite esso, divenendo appassionato di quella letteratura. Ho anche un tatuaggio a tema “La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath” e quanto mi piacerebbe un open world basato su questa storia, anziché la solita proposta dei culti di Dagon e Cthulhu.
Segnalo che esiste un vecchio videogioco horror che si chiama Kadath, ma non è basato su “La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath”, c’è solo il nome.
Ha visto il mio momento di brillantezza e subito dopo di delusione dopo queste parole?
Qualcosina l’hanno un po’ recuperato, ma in effetti è un’opera di Lovecraft trascurata. A me piace molto, tanto che ho scritto la prefazione per un’edizione italiana di quest’opera.
A parte questo, io Mellick lo considero un genio. È uno dei miei autori preferiti, non ironicamente, e lo metto a fianco di grandi maestri.
Certo, lui parla di cose assurde volutamente, molte delle opere forse non conviene nemmeno citare, anche per via dei titoli che sono da ban istantaneo da tutte le parti.
Lui stesso ha detto che chi vuole dare un senso profondo alle sue opere è un fessacchiotto, e non ha usato questo termine, ma in realtà è proprio questo che a me piace tantissimo, ovvero che lui tira fuori delle storie effettivamente assurde per il gusto di essere assurde, ma ci sono dei casi come “La casa sulle sabbie mobili” dove lui veramente va a mettere in campo quelle che sono delle emozioni umane in un modo estremamente profondo e complesso, ma con leggerezza.
Quella leggerezza che citava Calvino, anche se Calvino, probabilmente, trovandosi accostato a Mellick direbbe: “ma cos’è ‘sta cosa?” Ma c’è effettivamente una leggerezza di fondo nel parlare di quelli che sono dei drammi umani messi in contesti assurdi. Ad esempio, discorsi sulla genitorialità in storie dove ci sono bambini sanguisuga, ragazze con le corna che vivono in una casa enorme, piena di stanze popolate da mostri sul pianeta alieno, e ti fa spostare l’attenzione su quello tramite questa leggerezza, ma in realtà c’è sotto molto di più. Per questo mi piace tanto e mi piace anche citarlo e collegarlo ad altri discorsi.
Non sarei per definirlo “trash”, che è un’operazione di carattere differente. Mellick è Mellick. Persino all’interno della Bizarro Fiction è molto raro trovare questo bilanciamento.
Partire da qui per dare un qualcosa in più non è scontato. Io non farei il discorso culturale con Mellick per i temi che tratta, anche se mi piacerebbe tantissimo spammarlo ovunque.
E’ verissimo quello che dice Federico Frusciante: lo scarto a volte è troppo ampio. Il problema qual è? Perché le persone finiscono per odiare la letteratura, il cinema d’autore, ecc. Perché succede spesso?
Abbiamo lo stereotipo del ragazzo o della ragazza che legge il romanzo commerciale e arriva la professoressa arcigna che dice: “No! Devi leggere il romanzo di fatto, la storia dei partigiani, qualcosa di profondamente impegnato!” Se vai da un ragazzo a dirgli che quello che legge fa schifo, aggiungendo che deve leggere “Il partigiano Jonny” e nient’altro, magari lui non ha voglia e finisce che non legge più niente.
Per non parlare poi dei fumetti, con la mamma che fa: “mio figlio legge i manga. Aiuto! Come faccio a fargli leggere altro?” Ma lasciagli leggere i manga, finché non arriverà il punto in cui sarà pronto per provare a leggere Urasawa, fino ad arrivare a un punto di contatto che può essere “Poema a fumetti” di Dino Buzzati.
Quindi sì, assolutamente. Si potrebbe aprire un discorso infinito sulla media education, una delle cose che insegno in università, ma fermiamoci qui.
Ultima domanda riguardante i libri: il capitolo sui classici. Se dovessi pensare alla definizione di classico secondo Calvino, riguardo “I promessi sposi”, mi ritrovo ogni volta che gioco i “Souls”. Siamo dunque arrivati ad avere dei classici videoludici?
Sull’avere o meno, nei videogiochi, classici in modo pieno, quello sarà il tempo a dirlo, però direi proprio di sì. Secondo l’affermazione di Calvino, sicuramente con opere come i “Souls” si gioca facile in questo senso, ma si prenda ad esempio anche Super Mario Bros. che è stato effettivamente una delle pietre miliari fondamentali nell’ambito del game design. Tutta una serie di elementi anche di Elden Ring assumono un senso diverso andando a rigiocare Super Mario Bros. con un occhio da game designer.
Questo è un classico, non solo per l’essere divertente anche giocandolo oggi, ma perché se osservato con occhio critico si nota qualcosa di nuovo anche a distanza di anni. Lo si vede con un occhio nuovo anche perché nel frattempo sono stata fatte nuove esperienze videoludiche, che però derivano da lì.
Un altro esempio è Space Invaders, per via della Nishikado Motion che determina l’andamento della difficoltà di un videogioco. E’ un concetto che nasce lì, poi si è evoluta, è cambiata, la si trova in vari contesti, ma è una formulazione che rimane fondamentale, e ogni volta dice qualcosa in più.
Dark Souls è un classico e lo rimarrà per sempre, almeno a livello personale. Poi magari il mondo andrà in un’altra direzione, ma per me lo è.
Il nuovo libro, in arrivo a Lucca Comics & Games 2023, si intitola “Guida ai videogiochi. Tecniche, storie, immaginari”.
Esatto, è appunto una guida ai videogiochi, pubblicata da Odoya che è editore di tutta una serie di libri introduttivi su vari argomenti. Ho voluto fare una guida principalmente culturale, ma non ho fatto la storia del videogioco. Ho preso quelle che sono delle tematiche che reputo culturalmente rilevanti e dei videogiochi per approfondire. Si parla di videogiochi e letteratura, videogiochi e cinema, videogioco in Italia, videogioco e il viaggio, il videogioco autobiografico (poco considerato ma molto importante e altre parti) con tutta una serie di esempi.
La parte iniziale è un pochino più storica, ma anche lì sono esempi di singoli videogiochi attraverso i quali vado a raccontare delle meccaniche di gioco che a volte hanno introdotto, e altre volte che semplicemente vanno a rappresentare. Ad esempio, ho legato, come detto prima, la Nishikado Motion a Space Invaders; la difficoltà ermeneutica interpretativa a Resident Evil, il videogioco Breakout con il flow.
Anche il titolo è un po’ diverso rispetto a “Queste anime oscure” e “Le nuove anime oscure”. Si passa a “Interpretare Elden Ring” e “Guida ai videogiochi”. Titoli più classici, forse anche più impattanti a livello di marketing
“Guida ai videogiochi” è con un editore, quindi abbiamo ovviamente dovuto scegliere il titolo insieme. Gli altri sono delle mie autopubblicazioni, però ho scelto il titolo “Interpretare Elden Ring” perché mi piaceva l’idea di porre questa sottolineatura specifica, mentre “Queste anime oscure” e “Le nuove anime oscure” erano più trasversali.
Ultimissima domanda. L’editoria videoludica, in Italia e volendo anche nel mondo, a che punto è?
Emergono tantissime pubblicazioni. Sul mio sito stesso faccio questo listone, cercando di tenerlo il più aggiornato possibile, di pubblicazioni in lingua italiana, quindi saggi in italiano sui videogiochi, e già lì, se andate a vedere, trovate di tutto.
Quindi l’ampiezza c’è, ma parliamo di una nicchia. Non ci si può aspettare di scalarla più di tanto, a meno che non si facciano libri molto pop, magari fatti da uno youtuber.
Chiaramente il saggio videoludico, un po’ come tutti i saggi, raggiunge un bacino di utenza che è definito. L’importante è avere la consapevolezza di questo, senza aspettarsi di vendere centomila copie. Ma neanche diecimila in tanti casi.