Il blob di Gekigemu – per una critica al discorso videoludico

Ricalcando l’omonimo (e parecchio longevo) programma Rai ideato dagli storici autori Angelo Guglielmi, Enrico Ghezzi e Marco Giusti, il Blob di Gekigemu – canale YouTube dedicato agli “approfondimenti su videogiochi dimenticati e manga alternativi” – offre uno spaccato tutto italiano e amaramente ironico del discorso videoludico, con un appuntamento non scritto che si rinnova ad ogni grande uscita nel mercato AAA: God Of War Ragnarök, Elden Ring, ora The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom (le uniche eccezioni sono quelli dedicati ai The Game Awards del 2021 e al film d’animazione Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time).
Il modus operandi è lo stesso di quello utilizzato nel programma televisivo: diversi spezzoni di video – prelevati in questo caso dai canali Twitch e YouTube delle principali testate e degli influencer più noti – vengono montati senza soluzione di continuità in un unico contenuto audiovisivo. Ne emerge così un collage per certi versi grottesco e dal retrogusto quasi demenziale, e tuttavia lontano dal nonsense. La cacofonia di frammenti e di estrapolazioni che lo compongono non è infatti casuale, ma segue la precisa traiettoria di un intento satirico: quello di voler mettere a nudo l’insostenibile superficialità del modo in cui si parla di videogiochi.
La grande massa informe
Nel film cult del 1958, quello diretto da Irvin S. Yeaworth Jr. intitolato Fluido Mortale, il termine “blob” si riferisce a una massa indefinita e gelatinosa capace di inglobare qualunque cosa. Un mostro senza forma, animato soltanto da un incontenibile istinto fagocitante, che si agglutina di ogni corpo entri in contatto con la sua melma oscura, senza distinguere gli oggetti dalle persone. È il mostro della televisione, almeno per come l’hanno vista Ghezzi e soci, che nell’inerzia travolgente del blob intuivano già la deriva che il discorso televisivo – e di conseguenza quello pubblico, direbbe Neil Postman – stava assumendo in quegli anni centrali per la definizione del paradigma culturale italiano.
Descritto sul sito di RaiPlay come un “surrogato televisivo”, Blob, di tutto e di più puntava (e punta ancora) a distillare il non-detto delle trasmissioni, a svelarne il sottotesto e perfino le contraddizioni implicite, attraverso una sistematica operazione di ammassamento-smembramento: sta tutto nel montaggio, nel suo potere dissacrante, nella proprietà di evocare l’assurdo ritagliando lungo i bordi del consueto. Accorpati in un concentrato di 20 minuti, gli estratti diventano una specie di TV alla seconda, un’anticamera da cui sbirciare la grande macchina dello showbiz nei suoi manierismi e nei suoi clichés, evidenti perché strappati e reinseriti repentinamente da una cornice all’altra, riportati dalla dimensione controllata del palinsesto a quella caotica del mucchio.

Gekigemu opta per un minutaggio più esteso, dai 30 ai 50 minuti, ma rimanendo fedele al format Rai, adattandolo con intelligenza al nuovo contesto delle piattaforme in cui si discute di videogiochi. Le sequenze video, infatti, vengono predisposte anche secondo un criterio tematico, come a voler costruire una sorta di narrazione intertestuale del “surrogato videoludico”. L’inizio è scandito dalla rottura dell’embargo, momento nel quale giornalisti e influencer si lanciano spesso in commenti febbricitanti per introdurre il gioco del momento. Da qui si procede con il più classico dei canovacci: cosa ci si aspetta dal gioco, quali sono le sue caratteristiche principali, le differenze con altri esponenti del genere, cosa non va, ecc. Il tutto inframezzato da inserti di vecchie trasmissioni, spot pubblicitari trash (questi sì televisivi) o altri contenuti reperibili sul web volti a chiosare in modo esplicitamente canzonatorio alcune sequenze.
Opinioni, ragionamenti, sensazioni a pelle, critiche: qualunque tipo di commento espresso in rete confluisce nel grande indifferenziato dell’infotainment videoludico, una panoplia di voci e di volti incorniciati nelle loro postazioni che rappresentano i punti di raccordo di grandi community online. Quello evidenziato dal blob è uno spettro abbastanza ampio da contenere al suo interno anche pareri contrastanti; del resto, come la televisione è stata capace di attrarre persino le invettive al mondo dello spettacolo e, più in generale, ogni tentativo di fare controcultura, anche i social media esercitano una forza centripeta, se non simile, forse addirittura superiore.

Niente sfugge al blob, che è rappresentazione e oggetto rappresentato allo stesso tempo, metafora e specchio di un dibattito che tende inesorabilmente alla polverizzazione, con il suo incedere mollemente pervasivo, con l’infiltrarsi della sua melma densa negli interstizi del digitale fino a ricoprire ogni cosa. Tutto viene riassorbito e processato per diventare un unico prodotto del grande outlet della comunicazione: il web 2.0. Il discorso videoludico si mostra così nella sua massa critica: una massa voluminosa, attraversata dai più nervosi appetiti internettiani, in cui distinguere ciò che “valga la pena d’esser detto” – parafrasando Deleuze – è ogni giorno più difficile.
Farsi travolgere
L’ultimo episodio del blob videoludico è dedicato, come c’era da aspettarsi, al titolo del momento: The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom. Il nuovo capitolo dell’ormai storica epopea zeldiana ha avuto un’accoglienza a dir poco entusiastica, svettando sin da subito come uno dei videogiochi maggiormente premiati dalla critica, con una prevalenza di voti compresi tra il 9 e il 10. Come si confà a tutti i videogiochi molto attesi, intorno a Tears of the Kingdom si sono raccolte le più rosee aspettative degli appassionati della saga, soprattutto dopo il grande successo ottenuto da Breath of the Wild, generando così la convinzione che il verdetto della stampa specializzata fosse in qualche modo già scritto, o quantomeno facilmente prevedibile. Che avrebbe sfiorato il cosiddetto perfect score, insomma, si sapeva: quale miglior occasione per il blob?

L’arrivo di questo nuovo capitolo di Zelda, d’altronde, sembra seguire il destino riservato più o meno a tutti i colossi dell’industria videoludica, con un clima già surriscaldato da anteprime ammiccanti al capolavoro senza tempo che poi esplode fragorosamente in un’ondata di encomi e recensioni estasiate. Dipinto come quintessenza del videoludo da un giudizio grosso modo unanime, ci si potrebbe chiedere a questo punto se Tears of the Kingdom sia davvero un gioco di così grande valore, ma la tentazione di cercare il proverbiale pelo nell’uovo è figlia di un pressapochismo analogo, complementare alla medesima tendenza all’assottigliamento. Andare controcorrente, nel blob, significa andare nella stessa direzione di tutti gli altri: nessuna.
Sindacare sulla qualità del gioco in questione (con tutto che anche solo il concetto di qualità meriterebbe di essere approfondito e descritto con maggior precisione), infatti, è un inciampo che Gekigemu evita con grande eleganza, nel modo più semplice ed efficace: lasciando che siano soltanto gli altri a parlare. I pareri che potremmo definire controversi – come quello sull’assenza di teletrasporti che ricorre quasi come un mantra ossessivo, e per questo comico, durante tutto il video – si intrecciano ciclicamente ai molti elogi, in un dialogo il cui congenito individualismo stride più che mai con l’espulsione di ogni forma di soggettività in favore di una dialettica vuota e fine a se stessa.
Frasi come “è un gioco rivoluzionario”, oppure “ci sono infinite possibilità”, “l’unico limite è la fantasia” sono letteralmente pronunciate da chiunque, e per quanto nel singolo caso di una recensione possano avere senso (si deve pur accettare che la decontestualizzazione su cui si fonda il blob non è priva di rischi), rimane sconcertante che nessuna delle voci/firme appartenenti alla cosiddetta game critic si sia sforzata di trovare formule anche semplicemente diverse per comunicare certi messaggi. Ogni tentativo di analisi e di lettura è viziato da una disarmante aridità semantica: il ricorrere pedissequamente a espressioni più che abusate – clichés divenuti norme linguistiche – che si riflette, in prospettiva, sulla scelta degli argomenti, su cosa debba essere considerato saliente, sui paragoni da fare: in una parola, di cosa discutere.
L’ironia del blob di Gekigemu sta tutta qui, nel tragicomico sbigottimento che si prova a vedere come, nelle sue articolazioni interne ed esterne, il discorso videoludico non possa che implodere su se stesso, risultando melenso e privo di scorci inediti, di prospettive originali e idee di critica che non si limitino a discutere sempre gli stessi aspetti di un’opera. Farsi travolgere, per l’appunto, dall’inerzia collettiva dell’hype, dal magnetismo rassicurante delle consuetudini, dall’assuefazione al già detto. Farsi travolgere dal tutto, e nel tutto sparire. Se non altro, ci si può ridere su.