Cos’è la critica videoludica?

Dal momento in cui la stampa di settore ha definito i canoni delle recensioni videoludiche, l’approccio dell’editoria – italiana e non (anche se verso altri lidi è possibile trovare delle eccezioni) – non è mutato poi molto. Ancora oggi ci imbattiamo in testi che, di critica, paiono avere soltanto una vaga pretesa, e questo non perché manchi la volontà di discutere il valore dei videogiochi, ma perché l’unico valore alla luce del quale vengono discussi è, in buona sostanza, quello commerciale.
Benché con l’affinarsi delle tecniche discorsive il modello della “guida all’acquisto” sia stato superato, le recensioni odierne mostrano, a livello metodologico, un evidente debito nei confronti di quella stessa concezione per cui il videogioco viene visto come un prodotto, un bene di consumo da scegliere tra i tantissimi messi a disposizione dall’inarrestabile e pervasiva macchina dell’intrattenimento di massa.

Oggettivo e soggettivo: una falsa dicotomia
Se da un lato è chiaro come questa idea di videogioco sia la più manifesta espressione di un’industria modellata ad arte sulla filosofia della Silicon Valley, dall’altro verrebbe da chiedersi come abbia potuto rimanere immutata nel corso della storia – tanto breve eppure ricca di svolte epocali e contaminazioni con altri media – che ha portato il mezzo videoludico a essere quello che è oggi, e che tutti riconosciamo come un unicum in quanto a complessità e varietà di elementi.
Una simile forma di resilienza non può che spiegarsi con una generale mancanza di prospettive, e riecheggia di quello che nell’introduzione di Semiotica dei videogiochi (Edizioni Unicopli, 2017) viene descritto come “l’imbarazzo della cultura della parola scritta, che non riesce a dare risposta teorica al concretissimo imperialismo videoludico”. Il videogioco – questo sostengono gli autori – è un oggetto culturale strano, e la velocità con cui ha eroso i confini della propria nicchia di appassionati è stata tale da renderlo imprevisto e sfuggente, difficile da imbrigliare in un discorso critico che stesse al passo con il suo repentino successo.
Nel saggio si parla proprio del mancato tempismo delle università che “per lungo tempo non sono riuscite a intercettare i videogame, lasciandoli filtrare nell’indifferenziato continuum dei fenomeni accademicamente non rilevanti”. Invocata spesso come alibi da sedicenti critici, la mancanza del “patentino del recensore” cela quindi una più grande lacuna sulla nozione stessa di videogioco, un medium del quale sono rimaste adombrate le modalità di comunicazione e irrisolta – soprattutto – la tensione intrinseca alla sua duplice natura di opera/prodotto.
Da questo punto di vista non stupisce che la critica videoludica si sia sviluppata in seno al giornalismo di consumo, finendo per diventarne una prerogativa assoluta; né che la retorica imperante sia sempre stata quella del recensore che “deve mettere da parte la propria soggettività” in nome della tanto decantata onestà intellettuale. Questa ossessione per il giudizio oggettivo – condivisa anche da molti content creators – è sintomatica di una profonda incapacità a trattare i videogiochi come opere: la misera conquista di un apparato critico che non ha gli strumenti per ambire ad altro.
Tentare di espellere la dimensione soggettiva, relegandola cioè ad una generica e impersonale “esperienza utente”, non è che una comoda semplificazione del problema. Lo dimostrano l’eterna diatriba sulla longevità e la tendenza, sempre più frequente, a parlare della difficoltà di un titolo come un elemento che ne definisca l’accessibilità: questioni rilevanti fintanto che si considerano i videogiochi come degli apparecchi hi-tech per un pubblico che desidera solo mettere le mani sul nuovo giocattolo – che sia per fanatismo tecnofilo o per l’assuefazione all’intrattenimento da cui David Foster Wallace aveva già messo in guardia quasi trent’anni fa.
Perché la critica non spetta ai game designer
È di fronte all’immaginaria contrapposizione tra oggettività e soggettività che nasce l’idea di dover parlare in maniera imparziale di videogiochi, laddove – va da sé – per essere imparziali occorre avere delle competenze tecniche. Ma l’invocazione al game design non è che il vicolo cieco cui è destinato infilarsi l’atteggiamento culturalmente miope di chi ripone il titolo di critico nella figura competente più “vicina” al medium anziché soffermarsi sulla mancanza di altre figure.
Questo approccio alla critica videoludica, infatti, è deleterio almeno per due ragioni. La prima è che, portando alle estreme conseguenze l’idea che un recensore affidabile debba avere competenze da game designer, si finirebbe involontariamente per gerarchizzare l’intero sistema in virtù del principio di autorità, privilegiando i pochi che dispongono di tali conoscenze a scapito della pluralità di voci e opinioni che invece è possibile avere nel mondo digitale e interconnesso di oggi.
La seconda ragione sta invece nel passaggio dal descrittivo al prescrittivo che questa metodologia comporterebbe. Se è vero che fino ad oggi la stampa di settore si è lungamente soffermata sulla descrizione dei videogiochi in sede di recensione, con un tipo di critica basata sugli assunti del game design potremmo anche superare questo canovaccio, ma solo per arrivare a discutere di come i videogiochi dovrebbero essere e non più di come sono. È uno slittamento tanto sottile quanto insidioso, perché presuppone che ci sia un modo giusto di fare videogiochi, eliminando così ogni prospettiva autoriale.
Quando in Lector in Fabula Umberto Eco analizza la celebre novella di Alphonse Allais Un drame bien parisien ci ricorda invece come le norme alla base della produzione di testi siano sempre e comunque una congerie piuttosto malleabile, al punto che un testo può addirittura prevedere di “non funzionare” in alcune sue parti per restituire un significato preciso solo ad una seconda lettura. Nel nostro caso, assolutizzare i principi del game design servendosene come metro di giudizio potrebbe comportare il rischio di fraintendere tutti quei videogiochi che rifiutano alcune convenzioni, o che le rivedono anche solo parzialmente.
Pensiamo a Death Stranding, un’opera che sovverte platealmente la massima “Walking is never, ever gameplay” del noto game designer Scott Rogers, forgiando la sua pretesa ludica proprio nello spostamento dell’avatar all’interno del mondo di gioco. Se ci attenessimo ad un’interpretazione pedissequa di questa nozione allora non sapremmo nemmeno come avvicinarci al videogioco di Kojima, e in generale a tutti quei titoli definiti walking simulator.
Già l’aridità semantica di questo appellativo mostra la resistenza della critica a dotarsi di nuove categorie d’analisi davanti a qualcosa di imprevisto. Una pigrizia intellettuale che diventerebbe modus operandi nel caso iniziassimo a ritenere inviolabili alcuni precetti di game design, con la triste e paradossale conseguenza di arrivare a discutere soltanto gli aspetti “performativi” di un videogioco (la grafica è di buona fattura, la trama coinvolgente, il sound design funziona bene, ecc.) e non le scelte che vi stanno alla base.
Sulle recensioni come opere letterarie
Le accuse che vengono rivolte alle recensioni di oggi, ad ogni modo, vertono anche su una questione stilistica. Ci si lamenta spesso online di come i testi che è possibile leggere sulla stampa di settore siano “fin troppo ricamati”, e che utilizzino una terminologia più adatta ad un romanzo piuttosto che ad una recensione. Questo genere di critiche deriva dallo stesso bias per cui continuiamo a pensare il videogioco come un prodotto, e pertanto – in virtù della falsa dicotomia di cui sopra – a vedere nella recensione una funzione prettamente utilitaristica.
Benché sia improbabile che lo scopo principale di chi legge recensioni sia decidere se acquistare o meno un videogioco (lo dimostra il fatto che gran parte dei download avviene al day one, molti dei quali dovuti a preordini), ci si aspetta che questi testi non siano altro che degli esaustivi e preferibilmente agili compendi. Da qui l’avversione per qualsiasi articolo che si permetta strane peregrinazioni – spesso bollate come “filosofiche” – sui temi affrontati nel videogioco o ad esso collaterali.
Se è pur vero che attraverso la ricercatezza stilistica si tenta alle volte di nascondere argomentazioni poco consistenti, non possiamo pretendere che le recensioni di oggi siano ancora e soltanto degli opuscoli informativi volti a spiegare le caratteristiche di un videogioco. Tanto più in un’epoca contraddistinta dalla fruizione di contenuti online, dove i gameplay sono tra i più presenti su YouTube e Twitch, è un’esigenza della recensione stessa ospitare un discorso differente, che non si limiti a parlare degli aspetti più tangibili e autoevidenti del gioco.
E questo non può prescindere dal modo in cui vengono scritte: oggi più che mai c’è un disperato bisogno di porre nuovi interrogativi, di illustrare prospettive inedite, anche – forse soprattutto – quelle di natura letteraria, estetica, semiotica, sociale, politica, ecc., che non sono facilmente accostabili al videogame a causa della superficialità con cui lo si è trattato fino ad ora, ma di cui il medium riluce inequivocabilmente. Se non la critica, a chi spetta questo compito?