Cosa contraddistingue veramente i Souls?

Delle opere di FromSoftware si è già detto molto, specialmente dopo il clamoroso trionfo commerciale dell’ultima fatica dello sviluppatore giapponese, Elden Ring. Quel che lasciò il segno del seminale Demon’s Souls, ovvero l’anticonformismo di un’opera ermetica e particolarmente difficile, in controtendenza rispetto ad un panorama saturato da titoli sempre più accomodanti, è stato per lungo tempo definito il fulcro della visione di Hidetaka Miyazaki, nonché – appunto – motivo del successo di questo filone ludico.
Si è così passati ad annoverare la profondità della lore – quel retroterra narrativo che risplende dei vuoti lasciati volutamente in superficie – e la ruvidezza di un gameplay punitivo oltremodo tra gli indubbi meriti dei Souls, tessendo un ampio strato di speculazioni sulla prima ed utilizzando come “metro per giudicare la difficoltà” delle nuove uscite il secondo. Ma possiamo dire che siano soltanto queste le più rappresentative caratteristiche delle opere di FromSoftware?
Dall’estetica al metodo
Sicuramente questi due aspetti sono centrali nella visione di Miyazaki e del suo team, tant’è che nel tentativo – mosso più da ragioni commerciali che autoriali – di realizzare un seguito di Dark Souls, Yui Tanimura e Tomohiro Shibuya si sono focalizzati nient’altro che sulla riproposizione del medesimo canovaccio, salvo poi ottenere un risultato per certi versi inferiore, disattendendo le aspettative di appassionati la cui nicchia stava già prendendo forma tra le community online.
L’identità di Dark Souls (e di tutti gli altri Souls), in ogni caso, non è tanto da ricercarsi nella bontà stilistica di queste scelte, comunque piuttosto evidente, ma più nel ruolo che hanno avuto nel definire anzitutto il linguaggio dell’opera. È infatti l’intreccio di un gameplay così ruvido, a tratti frustrante, e di una strategia narrativa tutt’altro che didascalica a restituire, con un’operazione di allusivo e parziale disvelamento, quell’ormai celebre estetica dell’incertezza che può essere foriera di grandi glorie come di atroci sofferenze.

Il level design, da sempre cavallo di battaglia di FromSoftware, funziona proprio in rapporto a questa concezione dell’esperienza utente. Non è un caso che il mondo di gioco – e quindi anche i personaggi che lo popolano – sia a tal punto reticente nel fornire indicazioni su cosa il giocatore debba fare (e dove debba andare per farlo). Non si tratta solo di un invito ad approfondirne autonomamente le molteplici diramazioni virtuali, quanto più dell’insegnamento di un metodo, di un approccio alla scoperta che, in ultima istanza, diviene parte integrante del vissuto del giocatore e dell’esperienza stessa.
Questo aspetto “esoterico” dei titoli From viene colto con grande efficacia da Francesco Toniolo, quando nel saggio Queste anime oscure: incursioni nel mondo dei Souls (2022) parla dei simboli presenti nei menù di Demon’s Souls. Essendo “indicatori che non derivano da una rappresentazione figurativa, ma da segni astratti”, gli elementi dell’interfaccia laconica – spiega Toniolo – forzano i giocatori a dedurne il significato per mezzo dell’associazione visiva. Ma ancora più emblematico è il caso di Yurt, il Capo Silenzioso, che, senza mai rivelare le proprie intenzioni, “una volta liberato e condotto al Nexus, […] ucciderà progressivamente numerosi altri individui”. Starà al giocatore intuire e sventare la catastrofe, oppure, in caso contrario, farsi carico delle sue amare conseguenze.
Allo stesso modo l’esplorazione, che si snoda in un reticolo di strade dissestate, cunicoli angusti e spiazzanti vallate, riflette questa tensione – potremmo dire erotica – in un diorama dai confini ambigui e rarefatti, ad un primo sguardo persino traballante, cui spetta al giocatore provare a dare se non un senso, perlomeno una parvenza d’ordine. Oppure, fatalmente: ad affrontarlo, addentrandosi, pur non trovandone uno. D’altronde, è quanto postula l’incipit stesso di Dark Souls: “anche senza risposte, bisogna comunque proseguire”.
La concezione del tempo nei Souls
Aspettarsi che sia solo la presenza di un efficace dualismo tra ludus e narratio a far scattare questo meccanismo estetico è però una pia illusione. Basta guardarsi attorno: la maggior parte dei videogiochi che fa ricorso ad un’elevata difficoltà finisce per sfociare nel mero trial & error, mentre l’ermetismo dell’intreccio – per quanto stilisticamente interessante – difficilmente insegna qualcosa al giocatore. Cos’è quindi che contraddistingue i Souls, rendendoli unici nel loro modo di comunicare?
Per rispondere a questo interrogativo forse vale la pena di soffermarsi su ciò che, come ulteriore elemento di comunanza, presiede l’intera cosmogonia delle opere di Miyazaki: una temporalità atipica, in contrasto con quella lineare e progressiva del pensiero moderno. Del resto, se di fronte alle incongruenze spaziali del Forte Ferreo in Dark Souls II sono comparse numerose teorie riguardo alla “stagnazione del tempo” è perché quelle che in un altro gioco sarebbero state bollate come pigre scelte di design si prestano qui a un’interpretazione audace ma plausibile: il tempo, nei Souls, sembra effettivamente stagnante, distorto in qualche strana eppure verosimile maniera.
L’impressione è quella di trovarsi ogni volta in un territorio avulso, sottratto al naturale corso degli eventi; un mondo che si erge su di un passato del quale non abbiamo che un’idea sfumata di anteriorità, come sfumati sono i suoi legami con l’avvenire. Questa sensazione di immobilismo rende difficile collocare le vicende a cui assistiamo in un preciso orizzonte temporale, consegnandoci personaggi che sembrano incastonati nel loro angolo d’esistenza come gli “insetti nell’ambra” di Kurt Vonnegut. La concezione del tempo dei Souls ricorda infatti quella espressa in Mattatoio n. 5 durante il primo incontro tra gli abitanti di Tralfamadore e Billy Pilgrim:
I terrestri sono bravissimi a spiegare le cose, a dire perché questo è strutturato in questo modo, o come si possono provocare o evitare altri eventi. Io sono un tralfamadoriano, e vedo tutto il tempo come lei potrebbe vedere un tratto delle montagne rocciose. Tutto il tempo è tutto il tempo. Non cambia. Non si presta ad avvertimenti o spiegazioni. È, e basta. Lo prenda momento per momento, e vedrà che siamo tutti, come ho detto prima, insetti nell’ambra.
Si tratta dunque di un tempo metafisicamente trasceso, statico e resiliente, dove tuttavia – a differenza del celebre romanzo di Vonnegut – tutto può ripetersi. È sufficiente riposare ad un falò per ripristinare le condizioni iniziali della mappa e ripartire da zero, peregrinare infinite volte lungo il medesimo sentiero; affrontare, sconfiggere e perire per mano degli stessi nemici. Una ricorsiva fissità scandisce il perpetuo succedersi di vita e morte, spogliando quest’ultima della sua dimensione tragica per rappresentarla come un altro stato dell’essere – cos’è, d’altronde, un non morto?

Ancora una volta, questo è strumentale all’apprendimento. Il giocatore che avrà compreso di poter percorrere il tempo senza farsene attraversare potrà plasmarlo come meglio crede. Per paradossale che sia, i Souls sono giochi in cui si può “farmare” continuando a morire; anzi è attraverso continui game over che un novizio – proprio come in un cammino iniziatico – può arrivare a intuire la presenza di una meccanica di farming e imparare quindi a sfruttarla. È per mezzo di un’acquisita libertà temporale, anziché (totalmente) spaziale, che le opere di FromSoftware rivelano così il loro più grande segreto a chi saprà vincerne l’inerzia della sfida iniziale.
Muoversi in cerchio
Per comprendere a pieno la centralità di questa impalcatura temporale è sufficiente metterne in relazione gli altri elementi del gameplay. Se prendiamo in considerazione i punti di contatto che ci sono tra Souls e roguelike, ad esempio, ci accorgiamo di come il permadeath tipico di questa tipologia di giochi venga rivisitato nelle opere di Miyazaki: la perdita è circoscritta alla sola valuta di gioco (che comunque è possibile recuperare con un secondo tentativo), mentre oggetti ed equipaggiamento restano al giocatore anche dopo la sconfitta.
La stranezza, a ben guardare, sta nel fatto che l’uso di consumabili è però irreversibile, come del resto lo sono altre azioni fondamentali: l’apertura di una maestosa porta di pietra, l’attivazione di una shortcut, il dialogo con un personaggio, la sua uccisione, oppure – ancora più significativa – l’uccisione di un boss. Se paragoniamo questi “atti ludici” ad una presa di consapevolezza da parte del giocatore, possiamo scorgere un interessante rinvio al pensiero nietzscheano, in particolare alla sua teoria dell’Eterno ritorno.
Ciò a cui assistiamo nei Souls è uno slittamento dal tempo recalcitrante dell’esistenza, il cui senso non può che trovarsi al di fuori, rinserrato nel continuo disgregarsi del momento presente, al tempo dinamico e interiore dell’avatar – e soprattutto di chi ne muove i fili. Il solo modo per sottrarsi all’angosciante ciclicità del tutto è accettare la natura irreversibile delle proprie azioni: desiderarle e perciò viverle pienamente, come se quell’attimo fosse appunto eterno, poiché “dire sì a un unico singolo istante equivale a dire sì all’intera esistenza” (Waking Life, 2001, di Richard Linklater).

Anche nel multiplayer asincrono si vede il solco lasciato da questa idea di tempo: sia il sistema dei messaggi, che consente di comunicare con gli altri giocatori senza che questi siano presenti in partita, sia le macchie di sangue lasciate a terra ci raccontano di come la nostra storia sia soltanto una tra le infinite possibili. Da dove vengono i fantasmi degli altri giocatori? Sono echi residuali di un passato lontano, o il manifestarsi di un incombente e ineluttabile futuro? È da queste domande, o meglio, dall’impossibilità di formularne una risposta, che giunge una consapevolezza profonda e totalizzante: ogni possibilità è un universo.
L’assenza della pausa non è che l’ennesima conferma. Non ci può essere rottura o disgiunzione; non uno iato può imporsi nell’assoluta e perentoria ricorsività del tempo, il quale esiste in quanto tale, sfuggendo alle fallaci categorie che siamo soliti utilizzare per descriverne il passaggio sulle vicende umane. “Mordere la testa del serpente” – per riprendere una tra le immagini più evocative di Così parlò Zarathustra – significa, nei Souls, realizzarsi attraversando l’incompiutezza del mondo.
La sequenza finale di ogni gioco diventa a questo punto un bellissimo esercizio di stile: ammettendo allegoricamente – in un senso meta-ludico – il trionfo di ogni altro giocatore, si affranca così dalla romantica ma irriducibile tipicità dell’eroe, ricordandoci che siamo tutti prescelti per vivere come protagonisti.