Il Segreto di Monkey Island e Vite Parallele di Plutarco

Return to Monkey Island segna il ritorno di una saga pluridecennale e, questa volta, con Ron Gilbert a condurre le redini dopo trent’anni di assenza. Se dal terzo capitolo in poi Monkey Island è stato in grado, non senza critiche, di divertire, è con quest’ultimo che abbiamo avuto la sensazione di avere tra le mani l’esperienza definitiva.
Con un po’ di paura addosso, perché le cose belle vorresti che non finissero mai, che nell’orizzonte più lontano mostrassero ancora la potenza e il fuoco della loro scia, ho impugnato il timone e mi sono fatto guidare in un viaggio che non avrei voluto fare, ma che aspettavo da troppo tempo.
Banalmente, qual è il vero Segreto di Monkey Island?
Attenzione! L’articolo è un enorme e completo spoiler!
Return to Monkey Island non ha un finale
Terminata l’esperienza videoludica, tolte dagli occhi quelle che non erano lacrime, ma polli di gomma con una carrucola in mezzo, sono rimasto un po’ da solo con i miei pensieri, cercando di credere e non credere al finale che avevo appena visto, anzi ai suoi finali multipli.
Su quella panchina Guybrush, alla domanda di suo figlio su quale fosse il segreto di Monkey Island, ha un ventaglio di risposte, tutte valide, tutte vere e tutte maledettamente false. Il Segreto è tutta la ricchezza di questo mondo, oppure tutti gli amici incontrati nel tragitto, oppure, per davvero, una semplice e stupida t-shirt di un parco giochi chiamato Big Whoop.

Ma allora è semplicemente ciò che noi vorremmo che fosse? Trent’anni per sentirci dire che è ciò che noi ci vediamo? Sembra abbastanza riduttivo, ma la colpa non è la nostra. Ed è qui che il team gioca, consapevole o meno, la sua carta più bella che poteva giocare.
Qual è Il Segreto di Monkey Island? Innanzitutto è una grande storia
Mi riferisco a tutti i capitoli usciti di Monkey Island quindi anche al terzo, quarto e quinto ed è per questo che Ron Gilbert, nei suoi numerosissimi tweet, ha sempre ribadito che tutto resterà canonico, che non ci saranno cancellazioni, che Return To Monkey Island è si l’immediato successore del secondo capitolo, l’ultimo cui partecipò, ma è anche semplicemente una delle storie di Guybrush.
In fondo è questo Monkey Island, ossia le storie di un’aspirante temibile pirata, storie che escono dalla sua bocca, di quelle che leggiamo sui libri, o che vediamo nei film, e non ci interessa che siano vere, false, o parzialmente vere e false allo stesso tempo.
Noi, in un primo momento, siamo nei panni di suo figlio, quel bambino che non vede l’ora di scoprire il Segreto di Monkey Island, quasi fosse una corsa, perché i tesori sono fatti così, ci chiamano, come le sirene.
Nel 1990 molti di noi erano bambini; personalmente ero appena nato e Guybrush era un giovane ragazzo, così come i suoi creatori. Per tutto questo tempo i nostri occhi erano puntati soltanto sul Segreto, su quello che sarebbe stato, ma il punto è che, in realtà, non lo sapeva nessuno, neanche Ron Gilbert, Dave Grossman e Tim Schafer, altrimenti, ironia della sorte, che Segreto sarebbe stato?
Non per rompere la magia, ma in numerose interviste fatte loro nel corso degli anni si fa leva molto spesso su un aspetto che non vogliamo vedere: Monkey Island, parola di Ron, ha come scopo quello di divertire e far divertire chi lo sviluppa.
Questo non significa creare una storia priva di senso, ma sono i personaggi il vero fulcro della saga, quelli che devono restare coerenti e credibili, non di certo la lore o, paradossalmente, la trama.
Gli sviluppatori non erano neanche coscienti di aver creato, dopo il secondo capitolo, una serie di culto, ma semplicemente un buon gioco e soltanto negli anni successivi Monkey Island divenne una pietra miliare della storia videoludica.
Questo significa soltanto una cosa: la saga è cresciuta e si è sviluppata proprio insieme a loro, con le loro vite ed anche un po’ con noi, che per nottate intere li abbiamo tampinati su Twitter per cercare di scoprire qualcosa. Non è un caso se nel finalissimo, in una bella busta digitale chiusa con la ceralacca, ci sia un messaggio per noi; quel messaggio.
Gli occhi del cuore e Big Whoop
“L’essenziale è invisibile agli occhi” direbbe il Piccolo Principe, “non si vede bene che con gli occhi del cuore” direbbe Stanis La Rochelle in Boris. Ironia a parte è proprio questo il fulcro del Segreto. Siamo seduti su una panchina e siamo talmente presi dal contenuto di un forziere da non renderci conto che, per tutto il tempo, nostro padre Guybrush ci ha dato numerosi segnali.
Segnali del fatto che il Segreto è soltanto un percorso, ma uno di quelli che non porta ad una meta precisa, univoca, come siamo abituati. Qui non si va da A a B, ma si giunge in molteplici punti contemporaneamente: è una t-shirt, un tesoro, una storia d’amicizia e molto altro, insieme.
Segnali del fatto che in realtà noi siamo Guybrush e non suo figlio ascoltatore. Noi siamo con il papà quando, sbigottito, si ritrova di nuovo a Melee Island dopo aver rincorso sotto l’isola delle scimmie il temibile LeChuck; siamo con il papà quando, nella lotta con la sua nemesi, ci ritroviamo bambini in un parco giochi, Big Whoop.
Guybrush è inconsapevole tanto quanto noi, perché noi siamo lui e per noi intendo tutti, sviluppatori compresi che, da un gioco creato senza neanche rendersi conto di quello che sarebbe stato, si trovarono, non senza meriti, con una saga che rappresenta la loro stessa vita ed evoluzione.

Questa considerazione non è soltanto frutto della mia mente, ma del messaggio stesso rilasciato alla fine del gioco e dalle interviste. Ron Gilbert nel 2013 scrisse sul suo blog alcune idee per quello che sarebbe stato il futuro Monkey Island se solo ne avesse avuto la possibilità di realizzazione. Quelle idee, discusse dieci anni dopo con Dave Grossman, risultarono alcune valide, altre invecchiate male, altre, invece, non più parte della loro comicità: erano cresciuti.
Guybrush, dunque noi, trova difficile svegliarsi completamente dai sogni da bambino e non è un caso se nel finale del secondo capitolo, ma soprattutto in quest’ultimo, i segnali si fanno ancora più chiari: uno su tutti spegnere le luci del parco divertimenti Big Whoop, una ad una, con la possibilità, addirittura, di lasciar lì lo scrigno del Segreto.
Vite parallele di Plutarco
Senza scomodare Euclide, sappiamo che due rette parallele non si incontreranno mai, eppure, per Plutarco, queste possono avere qualcosa in comune, pur non incrociandosi affatto. Così Giulio Cesare non è poi dissimile da Alessandro Magno e le due vite, in un certo senso, finiscono per assomigliarsi molto, nonostante i secoli di distanza.
Dopo la matematica e la geometria ho scomodato anche la letteratura e la storiografia, ma non ho potuto fare a meno di pensare a quest’opera per il parallelismo, anche qui, tra la vita degli sviluppatori e Guybrush, in un mix tra consapevolezza ed inconsapevolezza del proprio operato; il Segreto non si sa cosa sia, eppure è un percorso evolutivo sotto gli occhi di tutti.
Se i quarantaquattro protagonisti delle Vite Parallele si fossero incontrati, se Cesare avesse avuto l’opportunità di parlare con Alessandro, cosa si sarebbero detti? Avrebbero combattuto o riso in faccia alla futilità del destino che spazza, sempre e comunque, qualsiasi confine?
Con il dovuto e rispettoso ridimensionamento, se gli autori avessero guardato Guybrush, emblema dei sogni di tutti i bambini, cosa ci avrebbero visto? Se la prima volta Big Whoop fu teatro di scontro tra Guybrush e Lechuck, per poi scoprire che si trattava dei due fratellini, la seconda volta è il papà stesso ad essere sorpreso dalla sua stessa storia.
Stavolta non si torna indietro, stavolta non c’è un’altra isola delle scimmie, stavolta si spengono le luci: le rette non sono più parallele. Ne è valsa la pena?
Un finale dolceamaro, la carta più bella
È così che è stato definito dagli sviluppatori nel messaggio finale: finale dolceamaro. Chiunque voglia vedere nel Segreto un tesoro dal valore inestimabile avrebbe ragione, ma allo stesso tempo completamente torto: non può essere una cosa soltanto.
Per questo è dolceamaro, perché vedere quel guy.brush, nome buffo derivante dal suo stesso file del fu Deluxe Paint, tuffarsi nei soldi fa felici, ma fino ad un certo punto; vederlo in barca con i suoi amici è bello, ma ci lascia un po’ increduli; per non parlare della già citata t-shirt, emblema dell’assurdità di questa saga; e i finali sono circa dieci.
Ma una domanda che per tutto il gioco Elaine, sua moglie, e Guybrush stesso si pongono è questa: ne è valsa la pena? Distruggere il sacro albero del mocio, dare più di dieci anni a Stan, ingannare, rubare, mentire, rischiare, inventare questo mondo, per tutti questi anni, e crederci, crederci per davvero, aggrapparsi al sogno di essere un temibile pirata ed inseguire così il Segreto di Monkey Island; di nuovo, ne è valsa la pena?

Più che una domanda è un indizio che, per tutto Return to Monkey Island, è piazzato sapientemente, quasi fosse una piccola crepa, lo spiraglio di luce che entra nella copertina di Linus, il mondo esterno che inevitabilmente bussa e si fa spazio. Questa è la carta più bella che il team potesse giocare e che vi avevo preannunciato nel primo paragrafo.
Se gli autori non erano consapevoli nei primi due capitoli della saga delle vite parallele e di cosa fosse il Segreto, ora invece lo sanno e cercano di farcelo capire nel boschetto di lime insieme ad Elaine, quando, di tanto in tanto, torniamo a raccontargli i nostri progressi sull’avventura.
Lei stessa è cambiata, è diversa e sembra essere l’unica consapevole della realtà, insieme a Corina, la Voodoo Lady. Elaine ci aspetta sull’uscio, nel finale, e ci domanda se siamo pronti ad andare via, quando proviamo a parlare con lei.
Lei sa, sa tutto, non come nei primi due capitoli quando veniva a prenderci appesi ad una fune. Il suo carattere in Return to Monkey Island è più mansueto, meno d’azione, come di chi sapesse già il futuro delle cose.
È Guybrush e la speranza di suo figlio a tenere a galla i sogni, la voglia di portare allo stremo la fantasia tanto da far dire, sempre e comunque che si, qualsiasi sia il risultato, ne è valsa la pena!
È un po’ la retorica del viaggio, per cui è più importante il viaggio stesso della meta, perchè il Segreto non è solo un percorso dalle molteplici tappe, ma il motore stesso, quello che accende tutto per poi, ironia della sorte, diventare secondario, lasciando spazio a quel gioco di specchi in cui, da molti spettri e vite parallele, ne viene fuori un’immagine soltanto.
Guybrush però non è da solo. Elaine ama suo marito, sa come è fatto, sembra stare al suo gioco e nel finalissimo lo invita verso una nuova avventura, su un’altra isola, perché se Il Segreto di Monkey Island ha smesso di essere il motore pulsante della sua vita dopo più di trent’anni, forse, ora ne scoprirà un altro; o semplicemente ne ha bisogno. Quelle luci, in fondo, sono impossibili da spegnere.