L’affare Activision Blizzard: dalla prospettiva di Sony

Ad ufficializzazione avvenuta, l’acquisizione di Activision Blizzard da parte di Microsoft ha destato l’interesse dell’intera platea videoludica, dando luogo a un dibattito acceso e largamente partecipato, tanto che ci si chiede ora quale sarà il futuro delle IP destinate a finire sotto l’ala produttiva degli Xbox Game Studios, che per l’occasione passano ad un più generico e totalizzante Microsoft Gaming.
Ma mentre il colosso di Redmond ribadisce la propria imponenza economica, facendo passare la precedente rilevazione di ZeniMax Media per una quisquilia da soli 7.5 miliardi di dollari, rimangono sensibili incognite anche sulle sorti dell’industria in generale. La mossa di Microsoft, infatti, non è soltanto straordinaria per la portata del suo esborso, ma anche perché rappresenta un punto di rottura degli equilibri preesistenti, primo fra tutti l’atavica egemonia di Sony.
A maggior ragione nel momento in cui il celebre motto di Jim Ryan – “we believe in generations” – comincia a pendere su quest’ultima come una spada di Damocle, gettando il prestigio del marchio PlayStation all’ombra di un’impasse comunicativa senza precedenti.
L’acquisizione di Activision Blizzard va osservata prima di tutto dalla prospettiva di un mercato sonycentrico che rischia di perdere la sua colonna portante, non tanto per l’ipotesi (alquanto improbabile) di un fallimento della casa di Tokyo, ma per il ridimensionamento del ruolo che ricopre ormai da anni all’interno del panorama, il cui lascito potrebbe dunque essere foriero di un cambiamento epocale.
Il paradigma Sony
Era il 1994 quando Sony, inseritasi nel solco delle furenti battaglie pubblicitarie tra SEGA e Nintendo (qualcuno ha detto “SEGA does what Nintendon’t”?), riuscì nell’audace impresa di settare un nuovo standard per l’industria dei videogiochi. Non solo per la superiorità tecnologica della prima – sperimentale – PlayStation, che tracciò una linea di separazione piuttosto netta con le console concorrenti, ma anche per l’attenta selezione del target commerciale ed il marketing efficace messo in atto dalla casa di Tokyo.
L’obiettivo era infatti quello di puntare ad un segmento demografico preciso, un pubblico diciannovenne, sul quale potesse attecchire il roboante battage con cui si dava risalto alla potenza grafica della nuova macchina. Così facendo, Sony finì per imbrigliare e farsi portavoce di un intero movimento generazionale: la cultura pop degli anni ‘90, della quale sintetizzò mode, gusti e stili di vita con personaggi come Crash Bandicoot – che rimane tutt’oggi l’emblema perfetto di quell’iconografia. Da lì a gettare le basi per diventare un punto di riferimento nell’ambito dell’intrattenimento digitale, il passo fu breve.

Non stupisce che oggi vi sia la tendenza ad accostare l’idea stessa di videogioco alla console di Sony, assurta ormai a volto del gaming per i più. Il merito va anche ai talentuosi team di sviluppo interni: l’aver coniato una propria, riconoscibile formula di blockbuster – quello stile dall’impostazione cinematografica che trova in Uncharted la sua massima espressione – ha reso i prodotti appetibili anche per il pubblico mainstream facendo conoscere PlayStation ad ogni latitudine.
Ma a giocare un ruolo fondamentale nel mantenimento di questo successo sono state anche le scelte di Nintendo, che – con l’espediente della portabilità – si è chiamata fuori da ogni competizione possibile, coltivando la sua (macro)nicchia di appassionati, e la mancanza di una concorrenza aggressiva da parte di Microsoft, l’unica azienda rimasta a proporre una console casalinga alternativa.
Si potrebbe dire che, in un certo senso, il mercato console si sia strutturato seguendo questo paradigma, laddove l’assenza di grandi rivali ha lasciato che si affermasse sempre più quell’idea di videogioco istituita proprio da Sony. Non si tratta tanto di una supremazia di carattere tecnico o economico, bensì culturale: è l’immaginario collettivo a essere stato plasmato da PlayStation, che è divenuta la console per antonomasia; anche in una generazione in cui Xbox 360 poteva contare su di un parco titoli di indubbia qualità, la percezione del grande pubblico non è certo mutata, men che meno il modo di approcciarsi al medium.
Rivoluzione Game Pass
In concomitanza con il lancio delle console di nuova generazione, tuttavia, sembra essersi profilata una situazione insolita. Il fatto che – per far fronte alla crisi dei semiconduttori – Sony sia stata costretta a ripiegare in maniera rovinosa sulla cross-gen che avrebbe voluto lasciarsi alle spalle, mentre sul versante opposto Microsoft ne faceva la carta vincente per l’espansione del Game Pass, ha decretato un ribaltamento di prospettive sul futuro dei due platform owner che non può essere ridotto a un semplice vantaggio per la casa di Redmond.

La filosofia del play anywhere rivela infatti una strategia assai lungimirante che inizia a raccogliere i suoi frutti in termini di visibilità proprio con l’acquisizione di Activision Blizzard: non è un caso che tra le IP che vanno ad aggiungersi al catalogo del Game Pass ci sia quella di Call of Duty, un franchise capace di smuovere letteralmente masse di utenti. Manovra, questa, che rischia di creare uno spartiacque inatteso poiché offre a quell’utenza casual – numericamente non trascurabile, e che per anni ha avuto solo PlayStation come punto di riferimento – un’opzione decisamente più economica, anche al netto di un probabilissimo rialzo della quota mensile.
Non solo Sony, quindi, ma in prospettiva anche il vero e proprio statuto del videogioco – che da quest’ultima mutua la centralità dell’hardware – deve essere ridiscusso alla luce degli eventi recenti. Raggiunta la massa critica, il Game Pass smette di essere semplicemente una risposta alla concorrenza (come poteva sembrare fintanto che inglobava le IP di Bethesda) e arriva a erodere la fascinazione che ammanta PlayStation imponendosi nel panorama per quello che è: un nuovo modo di concepire il videogame.
Dal canto suo, Sony rimane lì dov’è, in quella frangia di mercato fondamentalmente tradizionalista, sorretta dall’entusiasmo degli utenti più fidelizzati – perno di una rivoluzione che scaturisce proprio dal voler abbandonare quelle stesse vestigia. Non che sia necessariamente un male: come il vinile che accresce il proprio fascino tanto più velocemente compaiono nuovi media a soppiantarne la tecnologia arcaica, il modello di Sony potrebbe sopravvivere e diventare un baluardo, una roccaforte del videogioco “com’era una volta”. A Nintendo, in fondo, è andata così, anche se con una differenza: la casa di Kyoto – da buona zaibatsu fedele alle tradizioni – ha scelto fin da subito questa linea di pensiero, Sony no.
L’alba di una nuova era?
Ad ogni modo, questo riassestamento degli attori – o meglio, dei loro ruoli – segue una filosofia ben precisa: il passaggio dall’hardware al software, non a caso tra i punti forti del colosso di Redmond. Ciò che testimonia il lascito di Sony è insomma una progressiva emancipazione dalla console, uno slancio verso i nuovi lidi dell’intrattenimento digitale, che non deve più essere vincolato alla presenza di macchine ingombranti, ma caratterizzato da un’accessibilità a 360°.
Lo stesso Satya Nadella, CEO di Microsoft, ha affermato, nel meeting con gli investitori del 18 gennaio: “Dobbiamo rendere più facile per le persone connettersi e giocare a giochi fantastici, ovunque, quando e come vogliono”. Un tipo di visione filosoficamente coincidente con l’idea di metaverso, di cui poi Nadella dirà “Nel gaming, vediamo il metaverso come un insieme di comunità e identità individuali radicate in franchise di spicco, accessibili su ogni dispositivo”, rimarcando ancora una volta l’importanza del settore mobile, che com’è noto costituisce più della metà del valore dell’intera industria.

Il videogioco si sta dunque aprendo a nuovi modelli di distribuzione, reinventandosi – spesso secondo lo schema del game as a service – e intercettando con precisione capillare quanti più utenti possibili. Delineare un nuovo paradigma, a questo punto, non è difficile: oggi si compete per il tempo, per la quantità di ore di fruizione, un asset importantissimo il cui raggiungimento allineerebbe il videogioco agli altri media (musica e cinema), portando a guadagni ancora più ingenti.
È per questo motivo che colossi come Netflix, Google, Amazon e Facebook hanno dimostrato in tempi non sospetti una certa apertura al gaming, la cui disputa maggiore si consuma negli store digitali: Tencent docet. A tal proposito Bloomberg indica come tra le motivazioni che hanno spinto Microsoft ad acquisire Activision – e quindi King – ci sia anche la volontà di aggirare le restrizioni dell’App Store così da ottenere una posizione rilevante nel mercato mobile senza sottostare alle politiche svantaggiose imposte da Apple.
In quest’ottica il cloud rappresenta l’ultima frontiera, e non stupisce che i servizi di streaming di videogiochi continuino ad aumentare. A ben vedere, il tanto vociferato progetto Spartacus di Sony potrebbe essere considerato un passo verso questo comune futuro, piuttosto che una risposta al Game Pass. In ogni caso, quello che si sta presentando all’orizzonte è uno scenario indefinito: il mondo dei videogiochi sta cambiando, ma non è dato sapere se tutti i suoi esponenti seguiranno la medesima destinazione. Solo il tempo, insomma, potrà stabilire se l’eredità di Sony andrà perduta o se ispirerà ancora una volta il futuro del gaming.