Quando il controllore diventa il controllato: la serie En thérapie approda con successo su Arte.tv
Una riflessione sul ruolo dell’analisi e sulla caducità umana
Con frustrazione, curiosità e speranza ho interpretato per anni, e senza saperlo, il ruolo della paziente perfetta e sottomessa; tra infruttuosi tentativi di analisi e la scelta della terapia psicologica più adatta (junghiana, comportamentalista, gestalt) sono alla fine pervenuta ad un’amara conclusione: non esiste il paziente perfetto perché non esiste lo psicologo perfetto. Proprio in quanto essere umano, non è possibile delegare al proprio terapeuta l’enorme responsabilità di una “guarigione” rapida e definitiva, né aspettarsi da lui la gestione o tantomeno la soluzione di problemi o situazioni disagevoli. Lo dimostra perfettamente una recentissima serie, En thérapie, che anche in Francia sta riscuotendo, comprensibilmente, un enorme successo di spettatori, ed è interamente fruibile sul canale ARTE.fr fino alla fine di luglio. In realtà il serial drama è il frutto maturo di numerosi riadattamenti di un format ben rodato che risale al 2005.
Le manipolazioni del format: dal melodramma al successo
L’originale serie BeTipul, popolarissima in Israele, ma ben più conosciuta internazionalmente per la sublime versione americana In Treatment, con uno strepitoso Gabriel Byrne nei panni del terapista, ha subìto nel corso degli anni lievi ma sostanziali manipolazioni, mantenendo però intatta una trama chiara e semplificata. La ricetta perfetta del successo è lineare ma vincente, e l’effetto déjà-vu sorprendentemente incredibile: così come nella versione italiana andata in onda nel 2013, i produttori e i registi hanno puntato su un cast autoctono di assoluta eccezione, che da solo è in grado di sostenere l’intensità di trentacinque episodi di circa trenta minuti ciascuno, moltiplicati in qualche caso per più di una stagione.
I cinque pazienti che si avvicendano ogni giorno nello studio parigino del freudiano dottor Philippe Dayan (l’affascinante e credibile Frédéric Pierrot) sono pazienti quasi banali nella loro “anormalità”: c’è una bellissima, giovanissima e tormentatissima chirurga, in pieno transfert amoroso nei confronti dell’analista; una giovane coppia di genitori in bilico tra separazione e ricostruzione del rapporto; un’adolescente dai supposti istinti suicidi e autolesionisti; un rude poliziotto dei corpi speciali di origini algerine che ha rimosso un passato doloroso e inconfessabile. L’appartamento parigino dell’analista si trova, non casualmente, in Boulevard Voltaire, proprio di fronte al Bataclan, e le sedute si svolgono proprio nei giorni che seguono gli atroci attentati, legando indissolubilmente i destini dei personaggi. C’è poi un sesto paziente, forse il più importante: è lo stesso placido analista, che si ritrova ad esprimere le sue frustrazioni nello studio della ex collega ed amica, un’intensa Carole Bouquet, anche lei a suo modo in preda ad una crisi personale e professionale. Si sviluppa dunque uno scenario parallelo in cui il controllore dei sentimenti altrui diventa un incontrollabile e iracondo soggetto psicologico; il mite e riflessivo Philippe in realtà comincia a mal sopportare i propri pazienti e il suo lavoro, ha una vita familiare poco soddisfacente e sembra ricambiare ardentemente il transfert amoroso che la chirurga ha rovesciato su di lui. Dal primo incontro e per tutte le sedute, cresce il sentimento di ansia, angoscia, esitazione, vergogna e silenzio che, come un impietoso specchio, riflette le esistenze reciproche dei pazienti e del loro analista. Il pregio della serie francese, che ha potuto avvantaggiarsi delle precedenti versioni internazionali e possibilmente migliorarle, risiede nell’eleganza della sceneggiatura, che perde la componente patetica e melodrammatica (tutta mediterranea) della versione originale israeliana e l’artefatta freddezza “anglofila” della variante italiana (che ha visto dietro alla macchina da presa Saverio Costanzo).
L’intelligente adattamento di Eric Toledano e Olivier Nakache manifesta inoltre un sapiente equilibrio nel maneggiare il tema degli attentati e del trauma collettivo, senza che il soggetto divori la storia e i personaggi, i quali mantengono invece una propria autonomia narrativa. Ogni seduta diventa un’autentica pièce teatrale, giocata sul filo delle emozioni, in cui la complessità dell’imperfezione umana sembra lottare con le classificazioni invariabili “imposte” dalle regole sedimentate e impietose della psicoterapia.