Homecoming: Marina Abramović and Her Children. Quando l’artista ritorna a casa
Il nuovo documentario dedicato a Marina Abramović presentato al Trieste Film Festival
“Un’artista famosa torna a casa, dopo quarant’anni di lavoro, vita e amori all’estero, dopo molti successi, delusioni, trionfi e fallimenti”. Questa la breve ma efficace sinossi che accompagna l’uscita del documentario Homecoming presentato in prima nazionale all’edizione appena conclusa del Trieste Film Festival (21-30 gennaio 2021). La casa si trova a Belgrado, Serbia, e l’artista è, e non potrebbe essere altrimenti, la celeberrima Marina Abramović. L’occasione che sollecita il regista Boris Miljković a seguire le orme leggendarie dell’artista nella sua terra natale è la rappresentazione della sua ultima mostra itinerante, The Cleaner, negli spazi del Museo delle Arti Contemporanee di Belgrado. Dopo un instancabile tour in Danimarca (Louisiana Museum of Modern Art), Germania (Bundeskunsthalle, Bonn), Italia (Palazzo Strozzi, Firenze) la mostra, una vastissima retrospettiva di circa cento tra opere e re-performance di una delle più discusse artiste del nostro tempo, torna nella sua casa di origine. Non senza difficoltà logistiche ed emotive. L’evento è storico e simbolico allo stesso tempo, soprattutto per la Abramović, il cui rapporto con il suo paese e con la sua famiglia è stato da sempre conflittuale.
Tra mito e realtà: il senso dell’eredità dell’artista
Ormai leggenda vivente, icona incontrastata del jet-set artistico, al suo arrivo a Belgrado seguita dalle telecamere, l’artista sembra perdere tutta la sua forza e carismatica autorevolezza, rivelando le sofferenze e le fragilità di un passato doloroso e indimenticabile. Per chi segue e studia da anni il lavoro e la vita di Marina Abramović il recente documentario di Miljković, che si inscrive nella pletora di opere cinematografiche dedicate all’artista – solo per citare l’ultimo toccante film del 2012 Marina Abramovic: The artist is present, dedicato alla sua recente e intensa fatica performativa – può effettivamente sembrare ripetitivo e quasi didascalico nell’accompagnamento di Marina, tappa per tappa, attraverso i luoghi della sua vita precedente.
Per chi, inoltre, ha già avuto modo di esplorare la consigliatissima autobiografia Attraversare i muri (edita nel 2016 da Bompiani per l’edizione italiana) il documentario si dimostra una fedele e corretta trasposizione dei racconti di Marina: dal primo incontro rivelatore e presago con un serpente, sognato dalla madre incinta, agli scontri con i genitori, ex partigiani della seconda guerra mondiale, severi e assenti, che hanno inculcato nell’artista il senso del dovere e dell’autodisciplina, il viaggio dell’artista di ritorno a Belgrado si snoda tra ricordi mistici delle sue prime esperienze performative ed episodi salienti nell’ex Repubblica Socialista Federale di Tito. Gli amori intensi, non corrisposti, disillusi, la voglia e il rifiuto di una maternità più volte interrotta, hanno quasi obbligato moralmente Marina Abramović a ritagliarsi il ruolo di “madre” o, come preferisce definirsi, “nonna”, della performance art. Il suo lascito curiosamente pre-mortem, che nella mostra The Cleaner, e soprattutto nella sua edizione serba, trova un’emblematica chiusura del cerchio, corrisponde perfettamente alla volontà di formare una nuova generazione di performers, e con essa un nuovo pubblico. Concetto che sembra contrastare con l’etimologia storica e il senso ultimo di performance, di per sé evento unico e irriproducibile nel tempo e nello spazio. La necessità di eternizzazione del linguaggio artistico, l’angoscia della morte e dell’oblio, ma anche il desiderio di continua rinascita e di trasmissione, hanno spinto l’artista a creare il M.A.I. (Marina Abramović Institut), l’unico centro in cui si studia l’arte della performance con una metodologia “didattica” rara e preziosa.
Quando le sue ultime opere che la vedono protagonista sembrano perdersi e naufragare nel mare dell’incomprensione, come Le sette morti di Maria Callas e l’ultimo discusso video The Life per la londinese Serpentine Gallery, per il quale è stata accusata persino di sciamanesimo, rimane da chiedersi, come recita un altro consigliatissimo libro di James Westcott, Quando Marina Abramović morirà (edito nel 2011 da Johan & Levi), chi si farà carico della sua pesante eredità? La risposta è forse presente nell’abbraccio collettivo e totalizzante che chiude simbolicamente Homecoming: Marina Abramović and Her Children e che riconnette l’artista al suo passato, con uno sguardo nostalgicamente proiettato verso il futuro.
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