Il castello non c’è più: Marco Bandiera e il carnevale simbolo di un Italia che commuove
E’ ancora presto per il Carnevale, è autunno e le foglie iniziano ad ingiallire, cadere e rendere spogli e irriconoscibili gli alberi. Quando si pensa alla festività contemporanea, a farla da padrone sono gli sfarzosi carri in festa, le maschere, storia antica e cultura popolare. Eppure, seppur anacronistico, a Roma il carnevale è arrivato in anticipo con “il castello non c’è più” di Marco Bandiera, in un piccolo teatro nel quartiere Centocelle.
A rendere speciali i luoghi le ricorrenze o le persone, non sono le scenografie né tantomeno le motivazioni storiche che si vogliono commemorare. Sono le emozioni, le singole storie personali e individuali legati all’esperienza. Una racconto dentro il racconto. Perché è nella vita vissuta che troviamo le gioie, le speranze, ma anche il dolore e le aspettative, di un intero popolo. Marco Bandiera con il suo spettacolo “il castello non c’è più”, ha portato al teatro Jolie Rogue, una di queste storie. Un tassello minuscolo di un puzzle che in qualche misura, riguarda ognuno di noi.
Marco Bandiera, nato e cresciuto a Ivrea, si mette a nudo con un monologo che racconta l’infanzia e il forte legame con la sua terra. La tradizione del Carnevale di Ivrea non ha bisogno di spiegazioni né anticipazioni. Un istituzione di fama nazionale non meno importante del carnevale di Venezia. Affonda la le sue radici in una leggenda popolare del 1194 in cui l’intrepida Violetta, figlia di un mugnaio, si ribella allo ius primae noctis del barone e libera il suo popolo dalla tirannia.
Eppure con “Il castello non c’è più” non esiste luogo, né tempo né spazio. Nel piccolo palco del Jolie Rogue, assistiamo a frequenti sbalzi temporali. Tra leggende, ricordi e speranze, si compie il destino dell’Italia intera, in una rievocazione di un frammento di orgoglio nazionale, sconosciuto ai più piccoli e forse svalorizzato dai più grandi. Tra quelle piazze ogni anno si commemora l’orgoglio di un intera città, ma più nel dettaglio, di un bambino, di sua nonna e dell’ingegnere Adriano Olivetti.
Attraverso la precisa e attenta regia di Rita Aprile, “Il castello non c’è più” riesce a fondere con dinamismo le caratteristiche del monologo interiore con la frequente rottura della quarta parete. Non mancano frequenti domande al pubblico, il quale più di una volta sarà chiamato a salire sul palco ad interpretare brevi scene. La tensione emotiva rimane alta e costante, ed è grazie alla perfetta collaborazione tra Rita e Marco, esplosiva nelle pause, i silenzi, la musica e i pochi elementi scenici a corredo del grande Carnevale di Ivrea. Si ritrovano elementi tipici di Beckett, ma reinseriti in chiave contemporanea, frizzante ed energica.
Dall’Alpe a Sicilia, così come per il nostro inno, anche le arance (da sempre simbolo indiscusso della Sicilia), passano per Roma e arrivano ad Ivrea. Rappresentano le pietre e i mattoni che il popolo usò per ribellarsi. Ogni anno ad Ivrea combattono tra loro sgargianti e cavalleresche fazioni, a colpi di arance. Ed è la stessa sfida che Marco pone al pubblico. Un invito a reinventarsi, a distruggere muri, ad autodeterminarsi. Così come fece sua nonna, una donna che trovò in Adriano Olivetti un’idea, un concetto, che le darà forza fino alla fine dei suoi giorni. Così come fece l’Italia nel risorgimento, in quell’ottocento saturo dell’idea romantica europea di unità nazionale.
In “il castello non c’è più” Marco Bandiera invita a ritrovare quello spirito perduto, individuale e collettivo. Ogni arancia una provocazione, leggera e gustosa, mai asfissiante, perché un frutto talvolta è meglio di un mattone. In questo panorama, la figura di Adriano Olivetti diviene cruciale, una figura talmente imponente e travolgente, da rendere Ivrea internazionale. Talvolta accade che le vita di un cittadino comune e un gigante si incontrino, creando una scintilla in grado di accendere un fuoco, le cui braci restituiscono capolavori.
Come il fugace incontro di una donna che incontrò il suo capo durante un carnevale e il nipote che portò su un periferico palco di Roma la sua piccola/grande storia. La storia di ognuno di noi.