Le insostenibili certezze della maternità

A Milano “La Madre” di Zeller con Lunetta Savino: una quotidianità complessa e difficile dove anche l’amore per eccellenza, quello materno, viene messo in discussione.
Una commedia che è dramma, e viceversa. Una realtà che è suggestione e forse anche il contrario. Questo il carattere specifico dello spettacolo “La madre” del drammaturgo e regista francese Florian Zeller, in questi giorni in scena (fino a domenica 14) al teatro Carcano di Milano, dopo il debutto a febbraio e un tour di successo su numerosi palcoscenici italiani da Nord a Sud. Protagonista assoluta una Lunetta Savino particolarmente ispirata e poliedrica, accanto ad Andrea Renzi, Niccolò Ferrero e Chiarastella Sorrentino, per la direzione di Marcello Cotugno.
L’amore materno, le possibili derive patologiche a cui questo può condurre, la decadenza dell’amore coniugale sono i fili conduttori della pièce, che dopo un iniziale tono da black comedy strappa allo spettatore più di un sorriso, per le situazioni descritte ed il meccanismo delle ripetizioni che Zeller instaura nel testo, come un metronomo che segna il tempo della vita. La trama si trasforma, così, lentamente in un dramma che non sembra essere né un vero sogno, né la banale realtà del presente, ma una vertigine ipnotica e crudele dalla quale risvegliarsi è impossibile.
Il mondo di Anna, la madre, è un luogo in cui lei non si riconosce più, isolata da un ménage familiare che l’ha espulsa o meglio da cui si è autoesclusa inconsapevolmente: da una parte c’è l’uscita da casa del figlio – ormai adulto – per andare a vivere con la fidanzata, una scelta che viene vissuta dalla donna come un vero e proprio tradimento, come abbandono del nido; dall’altra c’è l’amore evaporato con il marito Pietro, un rapporto dove la routine e i tradimenti, con l’immancabile corollario di bugie, hanno sostituito la passione, alimentando sensi di frustrazione e amarezza. E a tutto questo si aggiunge anche l’incapacità di relazionarsi in maniera sana con le altre donne che la circondano: la figlia, figura quasi inesistente e solamente citata, verso cui la madre nutre avversione sin dalla nascita; la futura nuora, per cui prova astio e gelosia.
Ma la responsabilità di questa solitudine non sta forse anche nell’aver rinunciato alla vita? Abdicare ai sogni, alle speranze e ai desideri unicamente per dedicarsi al proprio unico figlio maschio su cui riversare frustrazioni, rimorsi e ideali d’amore non è forse un cammino che inclina pericolosamente verso la disperazione?
Anche Anna, come molte donne, si è dimenticata di sé, ha concentrato tutte le proprie energie solo sulla famiglia e ha cancellato qualsiasi volontà di realizzarsi al di fuori del nucleo familiare. Ma una volta che il figlio è diventato adulto, all’improvviso si è ritrovata senza più un ruolo e di fronte al crollo del proprio mondo e delle certezze, fino a quel momento ritenute solide. Anna nello spettacolo continua, ossessivamente, ad apparecchiare la tavola, come se quello del mangiare insieme fosse l’unico momento felice della sua vita, che ora non c’è più. E’ ossessionata da una realtà multipla, una sorta di multiverso della mente, in cui le realtà si sdoppiano, assumono colori diversi caratterizzanti, creando un’illusione di autenticità costante in tutti i piani narrativi: ogni situazione viene vissuta sotto varie sfaccettature, con una trama ed un finale sempre diversi, tutti però accomunati dall’incapacità di Anna di uscire dai propri sogni, o incubi, morbosi.
Ma dai ricordi di Anna si può immaginare un risveglio? Nella sua mente di madre si affastellano ora sequenze oniriche, ora situazioni iperrealistiche. Il senso di colpa non basta più a tenere vicini i figli. Nel dolore del lasciarli andare, nel senso di vuoto che si genera nell’allontanamento, nei sentimenti contrastanti, ma anche nel desiderio di sperimentare un’esistenza altra, per una madre, c’è tutta l’accettazione della vita nel suo divenire, c’è il lasciar andare una parte di sé per rinascere nel distacco.
È il momento di ascoltare la parte più profonda di sé, di non essere più il riflesso di altri, di comprare un vestito rosso, di sperare di partecipare a quella vita, da cui si sente esclusa, ma anche da cui si è esclusa. Anna vestita di rosso danza lieve sul palco, in una dimensione di straniamento dalla realtà, ma anche di leggerezza, in doloroso contrasto con il candore bianco del camice ospedaliero della scena conclusiva, che scivola verso il tragico, ma senza proporre un finale a senso unico. Lunetta Savino riesce a rendere la complessità del personaggio con un’interpretazione consapevole e matura, che valorizza un testo, come quello di Zeller, sicuramente meritevole dei migliori palcoscenici internazionali.