Lo spazio e il tempo spiegati con Sanremo

Ci fu un periodo in cui l’ossessione di artisti, pittori, performer, attori e registi teatrali fu quella di allineare il concetto di “rappresentazione” a quello di “realtà”.
In sostanza si diceva che un qualsiasi oggetto artistico — che per sua natura vive di codici, di convenzioni — se vuole aspirare ad essere vero deve necessariamente restare unico.
Una rappresentazione teatrale, quindi, ha senso di esistere se e solo sé legato al tempo della vita, al “qui e ora”, all’hic et nunc.
Ogni replica di uno spettacolo perde per sua natura ogni forma di vitalità, diventando sempre più prigioniera della meccanizzazione del gesto, della ripetitività di uno sguardo, dell’artificialità del sentimento.
«Un’altra volta è un’altra volta, adesso è adesso» si sente cantilenare a un certo punto di Perfect Days, ultimo capolavoro del regista Wim Wenders. E il senso delle arti performative a partire dai primi anni ’50 fu proprio quello.
Ciò che fecero geni come Alan Kaprow, John Cage, Yoko Ono o Peter Brook fu cercare di emanciparsi dal concetto di forma e definire nuove idee artistiche il più possibile decodificate, sciolte da ogni vincolo con lo spazio e il tempo (sul concetto di hic et nunc è uscito un interessante libro edito da Töpffer, dal titolo Luce – Tempo – Spazio, di Fuso-Polizzi-Tadini).
Allora, l’idea era quella di assecondare il tempo della rappresentazione e farlo coincidere con il tempo della “rappresentazione” (o, per meglio dire, dell’happening, della performance).
Questa equiparazione tra rappresentazione e realtà — pur con dinamiche e risultati totalmente diversi — era già stata sperimentata nel cinema con il concetto di piano-sequenza. Lunghe inquadrature fatte di carrelli e panoramiche a seguire il soggetto rappresentato senza mai azzardare tagli di montaggio (Orson Welles in questo fu tra i primi maestri).
In sintesi, l’idea era quella di far coincidere la vita e la sua riproduzione, l’essere umano con il medium, significato e significante.
E a pensarci bene, ciò che accade oggi in molti eventi di aspirazione artistica è esattamente il contrario: anziché ridurre la rappresentazione a un recinto di pura vita, si riduce la vita a pura rappresentazione. Una rappresentazione sterile, deprivata di ogni conflittualità, di ogni possibile dolorosità. Assistiamo ad un aggiornato Teatro della crudeltà di artaudiana memoria con inversione sistematica di segno: una rappresentazione woke del reale, un mondo ovattato in cui tutto va necessariamente controbilanciato. Allora se a Sanremo uno degli artisti in gara si avventura in sentenze vagamente politiche («stop al genocidio!»), subito il CdA RAI cerca di ribilanciare ogni dichiarazione spigolosa riprendendo le parti del presunto offeso.
Atteggiamento lecito, sia chiaro. La RAI è un servizio pubblico e ha una linea editoriale precisa (forse mai così precisa negli ultimi anni), influenzata dalla maggioranza di governo attualmente in carica.
Sta a noi cittadini porci domande che vadano oltre la nota letta in diretta da Mara Venier. Chiederci se riteniamo ancora lecito che esista una tv di stato o, a monte, se ci riteniamo davvero rappresentati da un governo apertamente atlantista. Insomma, dovremo fare anche noi quell’esercizio che fu caro a Kaprow, Cage e Yoko Ono: vogliamo continuare a vivere di rappresentazioni o scendere nei turpi inferi della realtà?