NON VOGLIO MICA LA LUNA. MA LE (CINQUE) STELLE ALMENO…
Lo ammetto: per un attimo, qualche sera fa, seduto sul divano di casa, mi sono sentito come il Nanni Moretti del film “Aprile”, e davanti al capo politico del Movimento 5 Stelle sottoposto al fuoco incrociato di giornalisti e conduttore su “coperture”, “aliquote fiscali”,“deficit”, “bonus”, “euro” mi è venuto dal profondo del cuore un liberatorio: “Di Maio reagisci, dì qualcosa di moVimentista!”
Perché alla fine anche il buon Luigi Di Maio c’è cascato. Tirato per la giacca nell’agone politico dai vecchi marpioni dei partiti tradizionali, dall’italica stampa ingessata e da tutti quegli stakeholders che attendono, smaniosi ed interessati, l’esito di questa campagna elettorale (ed il passaggio del carro del vincitore, sul nome del cui cocchiere vige ancora la massima incertezza), ha ceduto alla più infima delle tentazioni. Perché se una volta, in politica, la si buttava ‘in cagnara’ per non affrontare i tempi veri della gestione del futuro delle persone, adesso il comodo rifugio è la materia economica, questione sulla quale, al suono del “ce lo chiede l’Europa” è possibile pontificare e prefigurare ab libitum gli scenari più vari e intriganti: d’altra parte, se così non fosse, sarebbe difficile riempire 3 ore e mezza di diretta, durata ormai istituzionale dei maggiori talk show politici.
Se c’è una cosa che, più di tutte, si può rimproverare alla politica nostrana, è quella di essersi prestata, chinata, asservita, appiattita troppo sui temi dell’economia e della finanza. Senza scomodare il buon Ezra Pound, che parlava dei politici come “camerieri dei banchieri”, non diciamo nulla di nuovo se riconosciamo a quest’ultimi un ruolo assolutamente primario nelle vicende che hanno segnato la storia politica dell’Europa e nel mondo negli ultimi anni, in particolar modo quelli post 2008.
Non diciamo altresì nulla di nuovo se sottolineiamo come l’insana predisposizione della politica italiana a rincorrere solo ed unicamente i temi economici può tranquillamente festeggiare i 5 lustri di vita, e coincide pressappoco con l’avvento dell’era berlusconiana. è stata infatti con la più famosa delle ‘discese in campo’ che è stata inaugurata la stagione delle campagne elettorali mosse dalle sole promesse economiche (o giù di lì): bonus, innalzamento delle pensioni, esenzioni, aliquote fiscali più basse, condoni, detassazione delle proprietà (casa, macchina ecc..), opere pubbliche come motivo di ricadute occupazionali, abolizione della tassa di successione, ipotassazione delle rendite finanziarie.
Infatti, se fino alle consultazioni precedenti c’era ancora chi, imbrigliato negli schemi dei partiti tradizionali di massa, ‘osava’ parlare di istruzione, ambiente, cultura, sviluppo, questione morale, con l’avvento della carovana berlusconiana, che ha parlato esclusivamente alla pancia (ed alle tasche) degli italiani, in breve tempo e per far fronte all’entusiasmo portato dal Cavaliere, tutti hanno finito per adattarsi e rincorrerlo sul suo terreno, da dove, ahimè, sono sempre usciti sonoramente sconfitti.
Poi è venuto il tempo dell’integrazione (mai veramente realizzata) europea, dell’Euro, dei parametri da rispettare, dei “mercati da rassicurare”, dello spread, dei limiti al deficit, e la politica nostrana ha finito di svuotarsi di contenuti, dedicandosi ad uno sport sgradevole quanto deleterio: limitarsi a fotografare i grandi cambiamenti economici e di scenario a livello globale, cercando di rincorrerli, dar loro un nome, anticiparli senza riuscirci; ora è certo quindi che la grande “cassandra” poundiana si è realizzata: i politici acritici sodali della grande finanza e della troika europea sono una realtà sotto gli occhi di tutti. E non è bastata la più grande crisi economica del dopoguerra, una perdita di produzione industriale di dimensioni spaventose, la disoccupazione alle stelle, un ceto medio risucchiato nei bassifondi della povertà relativa, a far accendere un campanello d’allarme e far capire alla classe politica che c’è più che mai bisogno di nuove chiavi di lettura della società, che non ragionino dal punto di vista del grande potere finanziario internazionale della realtà, ma seguano percorsi “pionieristici”, innovativi e indipendenti.
Una società in grado di formare veramente i giovani, con un’università al passo con i tempi, con una formazione eclettica ed “elastica”, non può avere paura, per esempio, dell’aumento della disoccupazione in Italia, perché quei giovani avranno un patrimonio culturale, tecnico e di esperienze assolutamente spendibile, con facilità, in Europa e nel mondo : a quei giovani si sarà data una possibilità, un patrimonio duraturo, non un sussidio di disoccupazione. Un Paese che si pone con serietà e rigore il tema della ricerca, dell’innovazione industriale, delle energie rinnovabili, non andrà in stallo economico o in paralisi produttiva se una nuova crisi farà schizzare, ad esempio, il prezzo del barile di petrolio alle stelle; se della tutela e del rispetto del territorio se ne fa una filosofia, un “modus vivendi”, i tagli agli enti locali dovuti alla crisi non paralizzeranno intere città alle prime piogge o ai primi 10 cm di neve. Sono solo alcuni esempi che vogliono illustrare come, progetti di lungo periodo che privilegino il sapere, la tecnologia, l’innovazione, lo sfruttamento equilibrato delle risorse e del territorio, rendano di più di uno sconto sulle tasse o di un bonus una tantum. L’obiettivo all’orizzonte è interrompere il pericolosissimo cortocircuito finanza-mercati-economia reale, che trasforma i fallimenti delle grandi bolle finanziarie in disoccupazione, recessione, crisi di contante, precarietà sociale.
Università, progresso, territorio. Eh già. Nel 2013 ricordo di aver votato, alla Camera, un partito nuovo, che dirompeva sul dormiente scenario politico nazionale, e si chiamava Movimento Cinque Stelle: e quelle stelle rappresentavano, come sostenuto sempre dai suoi promotori e rappresentanti, i temi di acqua, ambiente, trasporti, sviluppo, energia. Quel movimento si distingueva per il modo in cui sceglieva la sua classe dirigente, per il rifiuto della “nomenklatura” istituzione (eleggeva “portavoce”e non “onorevoli”), rifiutava finanziamenti pubblici. E soprattutto rifiutava i grandi dibattiti sul nulla messi in scena nei ‘salotti televisivi buoni’: gli esponenti pentastellati dotati già all’epoca di buona dialettica e di buoni contenuti (altri lo sono diventati strada facendo, nel corso della legislatura) intervenivano in collegamento e dicevano la loro, facendosi portavoce dei milioni di Italiani che rappresentavano; e soprattutto ogni occasione era buona per ribadire temi importanti che stavano a cuore alla base militante: applausi, sipario, stop.
Cinque anni dopo invece, noto con stupore e delusione, che i maggiori esponenti del partito che fu di Grillo sono ormai abituali frequentatori dei talk, cedono facilmente alla lusinga dell’intervista “esclusiva” , “monografica” ed autocelebrativa, incapaci di alzare la mano e chiedere che si parli anche di tutti quei temi che il Movimento ‘ha in pancia’, frutto di anni di attivismo, sul blog e nei teatri, di Beppe Grillo, o altrimenti alzarsi ed andare via.
Perché di idee ed argomenti il M5S ne ha, ma se si perde tempo a replicare solo ed esclusivamente a Giannini, Floris, Damilano, Mieli su dove si trovano i soldi per il reddito di cittadinanza o come si rispetta il vincolo del 3% tra deficit e Pil, si perde la ghiotta occasione televisiva di farli conoscere al grande pubblico, facendoli rimanere su un blog di internet, in una nazione con preoccupanti indici di analfabetismo informatico.
Il movimento di Di Maio è diventato un grande partito di centro, moderato, che strizza l’occhio al qualunquismo e che si preoccupa di non “spaventare la parte produttiva del Paese”, che si spende in tour europei per “rassicurare gli investitori stranieri” sull’infondatezza delle loro riserve riguardo un futuro governo a 5 Stelle, che il giorno dopo le elezioni potrebbe tranquillamente cercare un’alleanza con la Lega (destra) o con Liberi e Uguali (sinistra) senza scandalizzare nessuno; una novella Democrazia Cristiana il cui primo esponente, fosse nato 30 anni prima, sarebbe potuto essere una nuova, promettente leva della cosiddetta “corrente del Golfo” nello Scudo Crociato, allevato dai vari Gava, Cirino Pomicino e Scotti. Un po’ quello che, in sostanza, rimprovera al politico partenopeo il navigato Bersani ( che in tema di analisi politologica può vantare notevole arguzia), che parla dei pentastellati come dei ‘nuovi centristi’.
Un Di Maio che perde ore ed “occasioni” televisive a ripetere il mantra degli emolumenti tagliati ed a spiegare dove trova le coperture finanziarie per misure a sostegno del reddito e reenginering del sistema fiscale, anziché ricordare che il movimento del quale è portavoce ha un programma ben più articolato, di lungo periodo, che tocca tutti i contenuti e non squisitamente quelli economici.
Ma il punto è proprio questo: riportare l’attenzione su tutti i temi e tutti i campi dell’agire politico; un partito che si accinge a raccogliere non meno di un quarto dei voti degli Italiani, la maggior parte di elettori under 40, deve portare una rivoluzione, oltre che sui criteri di selezione di classe dirigente sulla gestione della cosa pubblica (già in parte fatta), anche e soprattutto sui contenuti e sulle priorità che sceglie di darsi. Dalle parti del web-movimento hanno ancora tra le mani un enorme patrimonio elettorale e di fiducia degli Italiani; patrimonio che rischia di essere dilapidato se il Movimento Cinque Stelle non sarà in grado di dettare l’agenda politica già in campagna elettorale (e non farsela dettare da giornalisti ed establishment), di riportare l’attenzione su temi e riforme realizzabili a ‘tasso zero’ relativamente all’ambiente, ai trasporti, alla giustizia, ai beni culturali: insomma, al futuro della generazione che, ad oggi, lo sostiene con una certa forza dentro e fuori le urne. Insomma, le 5 stelle tornino prepotentemente protagoniste!
Per non parlare poi della nota dolente di alcuni temi etici, dove i grillini hanno rincorso le dinamiche parlamentari, senza essere locomotiva di un vero cambiamento. Di Maio & Co. dovranno mettersi in testa, prima o poi, che questo Paese ha bisogno di un grande partito liberal-democratico, in grado di portare elementi di liberalismo sociale, federalismo solidale, legaritarismo e, assolutamente prioritario, una seria e rigorosa riforma, nella direzione della laicità, dello Stato e delle sue ‘architetture’. Si tratta di una missione forte, che richiede uno sforzo propositivo che deve venire dalle sensibilità della classe dirigente pentastellata e non dal dibattito, spesso sterile e puerile, di 14-15.000 persone iscritte ad un sistema operativo autoprodotto, molti delle quali si costruiscono un’opinione della realtà e della politica basata su fake news, anch’esse, spesso, autoprodotte. Chiedere poi di verificare il livello di laicità delle istituzioni a quel Di Maio chino dinnanzi al cardinale Sepe ed alle reliquie di San Gennaro, pare evidentemente esercizio ardimentoso.
La metamorfosi messa in campo da Di Maio mi ricorda molto, preoccupandomi, quella guidata da Fini e che portò, nel già citato 1994, il Movimento Sociale Italiano (partito i cui consensi crescevano causa rigetto verso i partiti dell’arco costituzionale, spazzati via da Tangentopoli), in Alleanza Nazionale. Sappiamo tutti com’è andata a finire: a spuntare troppo le unghie ad un leone, si rischia di trovarsi tra le mani un gattino spelacchiato. Il candidato premier riporti l’agenda politica grillina e l’identità al centro del dibattito pre-elettorale e spenda meno tempo a rassicurare istituzioni e mercati finanziari ed a elucubrare su danari e coperture, perché sono gli Italiani, in questo periodo storico, a necessitare di rassicurazioni.
Uno dei motti dei Cinquestelle è “a riveder le stelle”; “speriamo presto”, sentiamo di aggiungere noi.