Giovani di un secolo intransitivo

Perché secolo intransitivo? Non siamo a scuola col verbo e il complemento oggetto. Cerchiamo allora di spiegarci ricorrendo a qualche solita e facile metafora.
Ora, paragonando il “secolo” proprio a un soggetto, se pure come misura astratta temporale cui l’uomo assegna il corso di cento anni, sembra che quello da poco iniziato sia come un neonato che per reggersi sulle sue gambe inizia a gattonare qua e là, cercando di schivare tutte quelle insidie che trova man mano nel suo percorso allo scopo di mettersi in piedi e giungere alla sua autonomia dal grembo materno. Sembra quindi di tutta evidenza che l’entrata del secolo non ce la faccia ancora a declinare, a bypassare gli ostacoli più pesanti, alcuni del tutto nuovi e inaspettati che si sono andati a frapporre sul suo cammino verso una propria identità, una propria definizione , compito che lasceremo ai posteri.
Quindici anni sono ancora un soffio di secolo, iniziato a crescere sui grandi interrogativi di una società tesa alla trasformazione, al completamento di quelle istanze sociali poste in working progress già nel secolo scorso. Mentre la tecnologia ha fatto passi da gigante, le interposte difficoltà nate dai cambiamenti dell’assetto politico ed economico mondiale stanno visibilmente rallentando la crescita dell’uomo come individuo, nella diffusa crisi dei valori.
Ricordiamo come l’ entrata nel 2000, assai significativa per la sua importanza epocale, fu densa di aspettative ottimistiche: la new age, un’era nuova, un nuovo corso per l’umanità, nuove speranze. L’uomo si apprestava a un mondo di pacificazione, perché era la pace ad essere in prima linea nei desideri di ognuno. Ma davvero ci illudevamo che potesse scoppiare… la pace, come Flavia Vento che, quando le chiesero quali fossero i suoi obiettivi di vita, rispose candidamente : “la pace nel mondo”? Beata ingenuità, beati noi che un po’ tutti credevamo in un’epoca nuova. Ma il Padreterno sembra preferire i semplici e, insieme a Flavia Vento, forse ci stiamo guadagnando il paradiso.
Il presente è come un albero che affonda le sue radici in un terreno inquinato. E i frutti sono sotto gli occhi di tutti, sono in ciò che stiamo vivendo, la favola bella dei nostri quindici anni , che si rivela in un disastroso bilancio di conflitti, di corruzioni tanto dilaganti da penetrare in ogni intimo recesso delle istituzioni pubbliche, di egoismi privati e interessi nazionali perpetrati a danno delle popolazioni più arretrate, gli stessi per cui la giornalista Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin, è dovere ricordarlo, persero la vita a Mogadiscio nel 1994, gli stessi che oggi stanno deflagrando ad est del mondo.
Un inizio di secolo dunque retaggio di mali endemici, di un terrorismo annunziato e culminato nel crollo delle torri gemelle già nel 2001, sfociato da pochi anni con la comparsa di un’organizzazione ancor più criminale: ISIS, schizzato fuori come da una scatola a sorpresa sulle macerie di Osama Bin Laden; IS, sbocciato come un “fiore del male”, concimato forse dagli stessi poteri che quella falsa guerra santa intende distruggere, bulldozer che avanza alla cieca servendosi di giovani disorientati, facili esche da reclutare e poi uccidere come agnelli sacrificali, in quanto testimoni scomodi delle loro complicità.
Le “quattro” scimmiette
Il proverbio giapponese delle tre scimmiette “non vedo, non sento, non parlo” sta in realtà a significare “non vedo il male, non sento il male, non parlo del male”. Ma la vera rappresentazione si arricchisce di un’altra scimmietta, quella con le braccia incrociate, che simboleggia “non fare del male”. E’ la quarta scimmietta saggia che non viene quasi mai raffigurata. Forse perché operare nel bene non fa comodo a chi ha solo negli occhi il simbolo del dollaro come Paperone, perché è fuori moda, perché è una stupida utopia.
Parole, le nostre, senza speranza? Non sia mai. La speranza non è un oggetto vecchio da buttare nella spazzatura. E la speranza va riposta nei giovani che devono tener presente quella “quarta scimmietta” per poter cambiare le cose. Sono le intelligenze e i cuori dei nostri giovani che non devono cedere alla prepotenza dell’errore e degli orrori. Da italiani, dovremmo fare un bilancio 2015 del nostro Paese in particolare, la cui personalissima malattia ha radici antiche e ben note, un “fiore del male” per eccellenza che ramifica con i suoi tentacoli proprio sulle energie di quei giovanissimi in cerca di un’occupazione, purtroppo poveri di cultura e ricchi di povertà.
Ma c’è chi ci prova, chi resta e non fugge all’estero, chi si reinventa, chi promuove iniziative e incontri dentro e fuori dell’ambito scolastico per educare alla legalità e al rispetto dell’ambiente. Sono piccole realtà in fieri, esistenti nei vari territori del Paese, promosse da gente che si muove, prendendo di petto il futuro con la fantasia, con mezzi economici collettivi, con le varie capacità professionali, da quelle puramente tecniche a quelle più intellettuali. Un Paese che vuole crescere ha bisogno di tutti, delle diverse intelligenze, quelle delle mani e quelle del cervello. Ma un cervello non può “pensare” a scapito del lavoro delle mani.
Ecco i nostri primi quindici anni che faticano a declinare le inquietudini del secolo scorso, quelle che i giovani dall’Isola di Wright esprimevano pacificamente con i fiori tra i capelli e il leit-motiv “mettete fiori nei nostri cannoni”. Oggi, le cronache dipingono la realtà fuori dalla finestra di casa, dove fiori non se ne vedono, ma bombe, coltelli e scimitarre.
Angela Grazia Arcuri
Roma, 3 giugno 2015