L’olivo implora pietà

L’olivo è una pianta presente nella storia di tutte le civiltà che si affacciano sul bacino del Mediterraneo. Ad annunciare a Noè la fine del diluvio fu una colomba che gli portò nel becco un ramoscello d’olivo; con gli stessi gli antichi Greci intrecciavano corone per cingere i vincitori dei giochi olimpici. Questa pianta ha un insigne curriculum e come tale le si deve il massimo rispetto, se non altro per l’indispensabile prodotto che se ne ricava: l’olio. Cresce bene sui nostri terreni assolati, è bella, armoniosa e apportatrice di serenità.
Per questo la si è voluta introdurre nei giardini privati come pianta ornamentale e la si cerca di far sopravvivere nel metro quadrato destinatole tra la recinzione divisoria del marciapiede e la proprietà del vicino confinante. Se poi farà lo sbaglio d’infischiarsene dello spazio limitato avuto in concessione e crescerà oversize, ci penseranno le potature e ridurre qualsiasi legittimo desiderio d’espansione.
E veniamo al dunque, perché questo panegirico introduttivo vuol dirottare il discorso proprio sulla dissennata potatura degli olivi oggi di moda. Parlo di quella che li trasforma in macro-bonsai, con i rami simili a tante braccia della dea Kalì reggenti vassoi vegetali. I tagli drastici della chioma ridotta in piatti da portata avrebbero la pretesa di creare un effetto scultoreo e spettacolare mentre sacrificano completamente la pianta e la sua produzione alimentare in nome di una folle estetica arborea. Qui non è proprio il caso di giustificare tale scempio appellandosi all’arte topiaria perché si tratta di una vera e brutale castrazione che riduce una nobile pianta in un ridicolo totem da giardino.
Cinzia Albertoni
12 maggio 2014