La disgrazia del fiocco rosa

“Speriamo che sia femmina” titolava il Manifesto per le elezioni del Paese oltreoceano. Un augurio che in Casa Yamato non si sognerebbero di fare nemmeno al peggior nemico. Soprattutto ora che la questione del trono del Crisantemo si fa scottante, con l’ONU che non le manda a dire sulla discriminazione del sesso. Un tema, questo, che sembrerebbe essere diventato un vero e proprio problema istituzionale.
La principessa Aiko, unica figlia dell’attuale imperatore Naruhito, ha un piccolo difetto che le impedisce di essere la nuova imperatrice, trasformando la successione in un grattacapo spinoso per la nazione nipponica. Non è un fatto di maggiore età (ha 22 anni) o il fatto di essersi innamorata di un ragazzo di origini borghesi, come le tante principesse che hanno dovuto lasciare la corte imperiale per ragioni di cuore. Il suo è un difettuccio da poco: è semplicemente nata donna. Secondo una normativa in vigore dal 1947, infatti, il diritto al trono è riservato agli eredi maschi per stirpe paterna. E così a regnare come prossimo imperatore sarà il principe Fumihito(Akishino), zio della principessa.
Cambia nazione, ma il gender gap rimane una faccenda che interessa tutta la società. Ogni donna che intraprende la carriera politica, che sia per discendenza o per scelta, dovrà faticare il doppio, se non il triplo rispetto ad un suo coetaneo uomo. Ma questa non è una novità. Quello che è interessante è l’atteggiamento del genere femminile quando l’ambiente le richiama al “loro posto”.
Cognome per lui, nome per lei
Una recente polemica era nata in seno alla precedente amministrazione americana e si è riaccesa ora con Trump II. Kamala Harris, prima vicepresidente del governo Biden, poi sfidante dell’attuale presidente degli USA, non tanto in qualità della sua professione, ma perché donna, è stata spesso appellata solo col nome. Non che sia un problema in definitiva. Al massimo una scelta colloquiale, ma pur sempre riservata unicamente al genere femminile.
Si per Mattarella, Macron o Obama, ma Angela Merkel rimane semplicemente Angela o Ursula Von Der Leyen, Ursola. A depotenziare e sminuire professionalmente e personalmente una premier o una deputata che sia. Colpa principalmente attribuibile alla narrazione giornalistica che fa retrocedere il fiocco rosa a una disgrazia. Mai si è visto che si parli di Sergio, Emmanuel o Barack se non in toni ironici, sarcastici o canzonatori.
C’è stato poi il “Cara Irene” che si è sentito rivolgersi l’eurodeputata spagnola Irene Montero (SeD), in piena seduta a Strasburgo, nell’ottobre dello scorso anno, dal leader di destra Alvise Pérez di ‘Se Acabó La Fiesta’. Tutto questo a corollario di un’insieme di atteggiamenti che forse sarebbe più corretto ritenere parte di un retaggio più ampio di cui spesso sono anche le donne a diventare carnefici. In prima fila Giorgia Meloni che, nel 2022, in apertura del suo mandato a Montecitorio, ha tenuto un discorso in cui i nomi e cognomi fatti erano solo maschili, e le donne, ringraziate per aver permesso di “rompere il tetto di cristallo”, passavano solo attraverso i loro nomi. Insomma, autorità e merito togliendo.
Le donne manlike
Ma quindi che deve fare una donna per rientrare in quel sistema ed essere premiata? Da Giorgia Meloni a Angela Merkel, fino al modello più soft di Michelle Obama la risposta è semplice: essere meno donna. La scelta del pronome maschile ne è un esempio. E il Premier Meloni, con il consenso dell’Accademia della Crusca, lo sa ed è stata chiara al riguardo: essere chiamata “la presidente” o “la presidentessa” non è accettabile. Unica opzione “il presidente”.
Si chiama manlike lo stile che accomuna le figure femminili che nei contesti di potere adottano atteggiamenti tradizionalmente associati ai ruoli maschili per sfidare gli stereotipi di genere e ottenere maggiore credibilità professionale. Queste donne spesso parlano con fermezza e dimostrano una grande determinazione nel raggiungere ruoli di leadership, arrivando ad adottare posture e gestualità di dominanza fisica. Il loro linguaggio è legato a metafore della combattività e della resistenza.
Ne sono un esempio Margaret Thatcher, la “Lady di Ferro” dallo stile e dalla retorica autoritari o Angela Merkel, leader tedesca recentemente riemersa tra i nominativi di chi potrebbe permettere all’Europa di sedersi al banco delle trattative con Stati Uniti e Russia. Oppure dall’altra parte dell’Oceano c’è Hillary Clinton, prima first lady e poi ha tentato la corsa Casa Bianca contro Trump.
E chi non rientra nel modello? Beh, le donne che non rispettano quello stereotipo di donna sensibile e debole, ma che non lo sfidano nemmeno, sono quelle che come Aiko, appena 22enne, vedono scivolare la possibilità di guidare una potenza immensa come quella nipponica nelle mani di un uomo, più qualificato solo per il fatto di essere nato dalla parte “giusta”.