Ri-abitare i nostri luoghi. Esperimenti di IA per l’inclusione e la formazione di comunità consapevoli
Sparolando - Opinioni, Costume e Società
16 Novembre 2021

Ri-abitare i nostri luoghi. Esperimenti di IA per l’inclusione e la formazione di comunità consapevoli

di Diana Daneluz

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Il primato del dato e della computazione nella attuale fase storica ci restituisce un mondo pressoché interamente mappato e digitalizzato. Il che poteva darci l’impressione di poterne governare i fenomeni.
La crisi pandemica, e le sue conseguenze sulla salute e la sopravvivenza delle persone, e poi sociali, economiche, lavorative, psicologiche, in concomitanza con la presa di coscienza della crisi planetaria in cui versano le condizioni climatiche e quelle della nostra vita sul pianeta, ci ha messi in modo brutale prima davanti alla nostra fragilità, poi ad una diffusa e affannosa ricerca di adozione di comportamenti anti-fragili, e infine ad un novello bisogno di “senso”.

La stessa accessibilità della rete e la disintermediazione nella fruizione delle informazioni, inoltre, “sta cambiando la nostra mente e le nostre modalità di pensiero: il digitale implica il salto ad un altro piano logico del pensiero ed obbliga a costruire le informazioni e le proprie modalità di trasferimento sul piano delle immagini e delle metafore; in una parola, del ‘senso” (Elena Battaglini). Questo bisogno di senso si è tradotto da un lato in un ritorno di fiamma diffuso verso discipline come la filosofia, la filosofia del linguaggio, la linguistica e la socio-linguistica, la sociologia e così via, e dall’altro in corridoi ibridi dove quelle e altre discipline insieme ad espressioni come quella artistica si incontrano. Con in comune la volontà di superare le dicotomie, adottando “una visione capace di guardare ai fenomeni e di studiarli all’interno di un insieme di sintomi che si esprimono in termini di capitale umano, di fiducia, di qualità delle relazioni, eccetera…non osservare solo una cosa alla volta, ma cogliere ciò che accade insieme, nello stesso tempo, dalla prospettiva delle relazioni e del senso” (E.Battaglini).

E con l’obiettivo di supportare l’Uomo, come parte però di un ecosistema complesso in cui la Natura e la Tecnologia più avanzata sono attori sociali tanto quanto lui e con cui, nel migliore degli esiti, favorire nuove alleanze. Con l’Intelligenza Artificiale, grande protagonista del nostro tempo e delle nostre vite, attraverso “approcci multiscalari alla frontiera algoritmica ai quali educarci ed educare” (Francesco Agrusti, Università Roma Tre) e adottando “un concetto di IA da declinarsi in chiave interdisciplinare per una riflessione critica dal punto di vista filosofico, informatico, sociologico, psicologico” (Massimiliano Fiorucci, Università Roma Tre).

“Qui è il tempo del dicibile, questo è il tempo dell’’abitare’” (R.M.Rilke, Nona Elegia)

In uno di questi corridoi cammina il Nuovo Abitare, per la coppia di ricercatori-artisti Salvatore Iaconesi e Oriana Persico momentaneo esito di un percorso costellato di tentativi innovativi di mettere in connessione le comunità più diverse con l’Intelligenza Artificiale, favorendo con essa interazioni facili per comprenderla e prenderne coscienza, anche in contesti inaspettati come le periferie. Un progetto fondato su principi in divenire – 11 al momento –, ma aperto alle idee, a collaborazioni e contributi, che presto sfocerà in una Fondazione, mentre è già stato creato un “archivio” delle prime opere d’arte che ha prodotte.

Perché l’arte è una delle chiavi, da sempre, per arrivare al cuore degli uomini. Che è quello che va lanciato, ancora una volta, oltre l’ostacolo. Per Iaconesi il Nuovo Abitare è molto semplice da definire: la condizione attuale dell’essere umano è tale per cui i dati e la computazione delimitano i diritti e le possibilità dell’essere umano stesso. Lungi dal subirli passivamente, dall’esserne solo generatori perché altri li utilizzino e ne beneficino, imparare ad “abitare i dati” è la priorità e la strategia del Nuovo Abitare. Qualcuno fin qui aveva almeno sollecitato una “negoziazione dei dati”. “Oggi si diventa entità civile e democratica se si dispone dell’autonomia nella gestione dei dati”…”Solo un’interferenza sociale, di un metodico e organizzato intervento di comunità di cittadini, può trasformare l’alchimia matematica del sistema algoritmico in divenire da proprietà privata discriminante in patrimonio pubblico di civiltà”…”piegando la processualità matematica, quella concatenazione di sequenze che paiono ineluttabili (e che invece “sono continuamente riprocessabili e riconfigurabili in contesti diversi”, Giulio Giorello) ad una intesa, ad una Call for an AI Ethics” (Michele Mezza).

Abitare i dati

Le comunità, però,  devono conoscere la tecnologia in cui sono immerse, appropriarsene, e qui entra in gioco il Nuovo Abitare. Come si abitano i dati?  I dati sono un fatto “esistenziale” e come tutti i fatti esistenziali della vita hanno in sé la dimensione della ritualità, tutte quelle pratiche codificate cioè, spirituali o laiche, della quotidianità attraverso cui le comunità apprendono. Da qui l’idea di fare ricorso alla meditazione, come pratica antica che isolandoci ci consente di accedere a forme altre di percezione, ma tradotta nella dimensione attuale computazionale in una Data Meditation, luogo di empatia e di auto-osservazione e osservazione dei dati generative di consapevolezza.

Nata durante il primo lockdown per instaurare un rapporto coi dati diverso dalla fruizione passiva imposta dal bombardamento dei bollettini di guerra cui eravamo tutti sottoposti, divisiva e isolante, con il coinvolgimento insieme a i due ricercatori di pochi soggetti, ha coinvolto stavolta 80 persone, dai 19 ai 76 anni di età,  scelti tra coloro che avevano risposto ad una call, in una pratica condivisa, realizzata con il contributo di un team di creativi – Daniele Bucci, Stefano Capezzuto e Cecilia Marotta –, e in collaborazione con il Museo MAXXI di Roma, nell’ambito delle sue iniziative per #All4Climate. Ne è nata (anche) un’opera esposta nel Museo stesso il 6 e 7 novembre scorsi. La partecipazione attiva dei due progettisti al rituale è indicativa di una loro postura ben precisa di fronte alla Ricerca e all’Arte, parte intima della pedagogia del Nuovo Abitare: stare insieme nella comunità che impara. 

La pratica della Data Meditation, in pratica 

La Data Meditation si propone di sensibilizzare comunità di persone a fenomeni complessi. Questa era tesa a verificare nei partecipanti il grado di sensibilità all’ambiente e al cambiamento climatico, attraverso la raccolta di dati trasformati in una coinvolgente esperienza artistica. Ogni sera alle 21 per 7 giorni i data-meditanti si sono riuniti online su piattaforma Jitsi, con autodisciplina e coordinamento non scontati, per 15 minuti, in una meditazione che utilizzava i dati, generati da loro stessi e da un Altro cui si era abbinati, sull’ambiente e sulla auto-rappresentazione di sé nell’ambiente e registrati da un’app dedicata durante le 24 ore precedenti, tradotti in suoni e testi. I dati erano raccolti rispondendo a 4 domande molto semplici – cosa stai facendo?, dove sei?,  quanto sei sensibile all’ambiente in questo momento? (scala 1-100), avverti una sensazione di comfort o di disagio? (scala -100+100) – e sfruttando la possibilità di inviare un “messaggio nella bottiglia” a testo libero. Durante la DT, lo schermo del dispositivo utilizzato era diviso in due da una barra rossa pulsante: a sinistra i dati autoprodotti, a destra quelli prodotti dall’Altro.

Anche in cuffia erano riportati sull’orecchio sinistro i suoni relativi ai propri dati, sul destro quelli prodotti dall’Altro. Tra le cose da “sentire” quindi c’era anche la relazione con l’Altro, la sua presenza, in qualche caso la sua assenza, parziale o totale. La Data Meditation – tradotta in grafici, linee e curve in un “rotolo” dall’aspetto antico, dove la linea del tempo mostra tutti i contributi, e in un libro collettivo contenente tutte le risposte e tutti i messaggi nella bottiglia inviati, in una narrazione che svela i cicli stessi della vita quotidiana delle persone coinvolte – ha esperito soprattutto l’apprendimento di una comunità in un esserci l’uno per l’altro, in un’assunzione di responsabilità e in un patto di fiducia (la promessa di essere lì a quell’ora e ogni giorno, di non mancare, pena la non riuscita dell’intera operazione).  Lo scambio di dati con l’altro ha instaurato una relazione permettendo di sentire i dati come cose che uniscono in luogo di separare: ci si rivolgeva ad un Altro, se ne aveva “cura”. 

La negoziazione del processo con i suoi progettisti poi, giorno per giorno, affrontando insieme gli inevitabili inciampi tecnici, ha permesso anche l’apprendimento di una grammatica dei suoni per allenare i sensi a cogliere corrispondenze e incoerenze tra i dati prodotti. La DT ha indicato che le ritualità, le pratiche, come queste del Nuovo Abitare, possono essere una strada per imparare e condividere conoscenze. Ritualità in cui questa volta erano coinvolti esseri umani, ma per nell’ ecosistema complesso e imprevedibile in cui siamo immersi potrebbero coinvolgere anche soggetti non umani.

Il dono

La Data Meditation si è conclusa il 5 novembre con una meditazione collettiva nella hall del MAXXI cui ha seguito il disvelamento dell’opera prodotta in anteprima ai data-meditanti. Dopo aver ascoltato i dati generati nel corso dell’intera settimana, chi era presente si è svelato al proprio Altro in una chat-room riservata e poi gli è fisicamente andato incontro, scambiando con lui/lei un dono: una cartolina, una foto, un disegno, in grado di rappresentare il breve tratto percorso insieme, in qualche caso un oggetto egualmente significativo. Perché il Dono? “Il Dono è il simbolo che serve a mettere insieme, a legare. Ed è proprio Il legame a fare da perno nei passaggi dal simbolo al rituale, dal rituale ai riti e dal rito al mito” (Mariano Indelicato). “Lo scambio di doni in un contesto come quello attuale contribuisce alla creazione di una socialità primaria che far riferimento ad un “noi” ben definito…. tesse reti di relazioni tra persone che allora non saranno più estranei gli uni agli altri, ma daranno vita appunto ad un “noi” che seppure non condizionerà l’intera totalità della loro esistenza, potrà tuttavia riempire molti spazi…L’uomo è soprattutto un essere relazionale e il dono può riproporsi come un riferimento per contrastare l’anonimato” (Marco Aime). E l’individualismo.

L’Arte, come sempre

Perché cadiamo, Bruce?” chiede il padre a Bruce Wayne bambino caduto nel pozzo nel film Batman Begins, per poi insegnargli il regalo dell’apprendimento dall’esperienza negativa e dolorosa. Per Iaconesi, si impara, molto, dall’imprevisto, dall’inaspettato. Il Design si pone l’obiettivo di progettare cose funzionali. L’Arte nasce invece dall’inquietudine, che non va soffocata, ma cercata. È proprio davanti a ciò che spaventa, che inquieta, davanti all’inaspettato e all’incertezza, che le persone possono unirsi ed imparare, e immaginare, insieme, un altro mondo. Di fronte a fenomeni complessi non interamente prevedibili come nel caso degli effetti nefasti del cambiamento climatico, per esempio, “affrontare l’imprevisto con gli altri, trovando modi nuovi come quello di usare l’IA e l’Arte che si serve, si nutre, si contamina con l’IA, come “ponti” di sensibilità tra le persone, le organizzazioni, gli esseri tutti” (S. Iaconesi). “Il “dato” stesso come “attore”, quando non è fine a sé stesso, quando non è solo “contato”, quando è rappresentazione-delle e mediazione-tra le persone” (Gianmarco Bonavolontà, Università Roma Tre).

La città-laboratorio

Se il riabitare i luoghi del titolo vuole fare riferimento ad una ridefinizione di senso del nostro agire per una ricostruzione, dopo lo spaseamento sollecitato dall’impatto pandemico, ma già latente, di diversi luoghi appunto, personali o collettivi, intimi o condivisi, presenti o futuri, un altro libro collettivo – “Riabitare il mondo” –, raccoglie i dodici contributi di urbanisti, sociologi, sociologi del territorio, accademici seduti attorno al fuoco di una possibile rifondazione dei luoghi pubblici maggiormente aderente a comunità più presenti, più coinvolte nel respiro del proprio abitare, più partecipative e generative. 

A partire dalla città. La città come è oggi è in molti casi inadeguata per il suo abitante, per suoi tempi di vita e lavoro, per la sua sensibilità crescente verso i temi ambientali, per la sua stessa sicurezza. E d’altronde la città che verrà, quella pienamente integrata anche con le tecnologie più avveniristiche, è in qualche caso ostruita/ostacolata dal già costruito, da quella progettazione che indicava a priori la destinazione delle cose e che, per chi ha partecipato a questa narrazione, va decisamente superata da visioni più fluide, di un farsi delle cose qui ed ora, anche in architettura. 

Il mondo “già scritto”, già disegnato, non basta più. Così come servono parole nuove per definirlo, così vanno pensati mattoni e materiali altri per ri-costruirlo. Con una tensione non solo verso il nuovo, verso le tecnologie e il digitale. Attraversa tutto il volume una sotterranea aspirazione a “tornare alle cose” per tornare a vederle e a sentirle. “Entrare nel campo di pioppi” per il performer Alberonero vuol dire per esempio “portare la tecnica verso le mie percezioni più antiche, più prime, le necessità del vedere e del sentire”. 

La “creatività” torna ad essere una competenza, da raggiungersi magari attraverso lo stato di tranche raccontato da Le Corbusier come prodomico al lavoro ad ogni suo progetto. Non incoscienza, ma “la realizzazione di uno stato modificato della coscienza, grazie al quale si consegue un riorientamento percettivo e cognitivo, che consente di fare tesoro delle molteplici risorse intrinseche, spesso silenti, di cui il nostro corpo dispone, e che possono essere recuperate e utilizzate per affrontare in modo inedito e insolito situazioni problematiche” (Silvano Tagliagambe). E d’altronde è ritrovando lo stupore, (la meraviglia di Persico e Iaconesi) di fronte a quello che abbiamo di fronte la molla che produce lo scatto “Ricostruire il senso dell’abitare è un’impresa che si compie soltanto nella tensione dal quotidiano ai principi, non più in quella tra l’idea del mondo e la sua costruzione” (Giovanni Caudo).

Città-laboratorio intanto perché, come scrive anocra Michele Mezza, “la comunità, il soggetto metropolitano, potrebbe governare socialmente il processo di automatizzazione, inteso come fattore di liberazione dalla coercizione del lavoro materiale e come ridistribuzione delle funzioni sociali di relazione umana, perché, a sua volta citando Olivetti, l’informatica resti una tecnologia di libertà”. Poi perché indubbiamente sta cambiando l’idea stessa di città e del suo sviluppo non più lineare in sempre più persone che la studiano e se ne occupano. Una città contemporanea da ripensarsi secondo un metodo diverso: il linguaggio logico-discorsivo non basta più a progettarla. “L’arte, la relazione, l’arte delle forme, dei volumi, delle strutture musicali inizia laddove il linguaggio logico-discorsivo non può arrivare… E se il linguaggio della relazione è quello metaforico, allora la città contemporanea ha bisogno di un linguaggio che dia forma simbolica ai luoghi in cui matura la comprensione di noi stessi e del mondo…Su questo piano di senso, l’architettura e l’urbanistica si ridefiniscono anzitutto come metodo, non soltanto per dare forma alla città, ma per vivificarne le relazioni. Forse così il progetto diventerà un ascolto volto a rigenerare lo spazio, a consentirgli di riverberare nuovo senso, a riconnettere trame insediative interrotte” (E. Battaglini, saggio cit.). Comunità urbane come “orchestre”. 

E qui, forse, tutto si lega, nello studiare insieme, nel progettare insieme, nell’apprendere insieme, nel “sentire” insieme. Insieme agli altri essere umani, dandoci fiducia, insieme al pianeta che abitiamo, riparandolo, insieme a quello che esiste e a quello che ancora deve venire con l’ascolto, insieme alla Tecnologia e all’Intelligenza Artificiale, insieme all’Arte e agli Artisti. Suonare insieme, come in un’orchestra, e ri-abitare, ri-parare un “mondo rovinato….. prendendoci le nostre responsabilità per i danni inflitti” (Laura Centemeri).