Ricchi in giro per il mondo e poveri per il… quartiere

Si fa per dire, si dice per sparlare. Un calzolaio di scarpe su misura, artigiano noto per servire una clientela privilegiata, racconta che un suo cliente, ricco imprenditore proprietario di cinque case sparse per il mondo, gli ha ordinato ben cinque paia di scarpe esattamente ” uguali “. E la cosa non è poi così strana. Lo scopo del ricco uomo d’affari è quello di semplificare i suoi soggiorni, supponiamo, ora a Roma, ora a Parigi o Londra, oppure Pechino o Stoccolma. Ogni volta che si reca in uno di questi suoi appartamenti, non può certo, stanco giramondo con la sua cartella 24h, avere il tempo per l’acquisto di scarpe e quant’altro. Quindi, potrà trovare in ogni casa tutto quanto gli occorre per veloci appuntamenti di affari dopo una doccia profumata con costosi oli essenziali… assolutamente privi di parabeni.
Liquidato il ricco imprenditore, ci sono poi tutti coloro che remano nella stessa barca del comune impoverimento, i quali continuano a mantenere una seconda casa oltre a quella di città, o acquistata faticosamente col mutuo o avuta in eredità familiare. Anche questi usano procedere nella stessa maniera del ricco di cui sopra, cioè lasciando fuori il necessario per trascorrere le vacanze estive o brevi week-end durante tutto l’arco dell’anno. Una “media” felicità dunque (con ampia riserva sul concetto di felicità) ma senza… “scarpe su misura” e magari con il bagnoschiuma coloratissimo ricevuto per regalo di Natale, saturo di acido para-idrossibenzoico.
Quisquilie a parte, in un Paese comunque tar-tassato non è ozioso sottolineare che la borghesia sembra di fatto aver compiuto il suo corso. Nell’appiattimento della società dei nostri tempi, sembra peraltro assai scivoloso il tentativo di fare delle distinzioni sociali in termini assoluti, negli sconfinamenti dall’una all’altra categoria, laddove appare limitativo innalzare dei muri tra veri e falsi ricchi, tra veri e falsi poveri, nel magma degli sconvolgimenti politici ed economici di questo particolare momento storico.
Poveri relativi, poveri assoluti e… ricchi relativi
Viene comunque da fare qualche riflessione. Povero (il “pauper” latino) è definito colui che ha lo stretto necessario per vivere. Oltre tale limite, si deborda nell’indigenza.
Allora, secondo l’ enunciato, tolti i veri ricchi, quelli che i soldi gli escono dalle orecchie, e i poveri assoluti che non sanno come racimolare il pranzo con la cena, gli appartenenti a quella categoria di media capienza economica che copre una bella fetta della torta sociale e possiede ben oltre lo stretto necessario, in quale esatta categoria vanno inseriti? Da un’occhiata circolare sull’odierno tenore di vita ci sentiamo legittimati a contemplare una terza categoria, quella dei… “ricchi relativi”.
Battute sempre a parte, tocca affidarci malvolentieri ai numeri. L’Istat conta in Italia più di 5 milioni di “poveri assoluti” con maggiore incidenza nel Mezzogiorno, dove alligna un’endemica mancanza di lavoro e di conseguenza un basso grado di scolarità. Ma al proposito non riusciamo a sottacere che proprio questo povero Mezzogiorno così trascurato porta fino ai nostri giorni lo strascico della più significante eredità culturale del Mediterraneo quale culla della Magna Grecia, con notevoli eccellenze segnatamente in campo filosofico, purtroppo non adeguatamente supportate dal favore propagandistico degli odierni mezzi di comunicazione.
È un Sud ricco di valori antichi, ove fervono iniziative culturali ed economiche assai apprezzabili tra i giovani legati alla loro terra, rimasti in loco anziché fuggire al Nord attirati dalle lusinghe di ambienti intellettuali di sapore radical chic. Ma i numeri delle statistiche, si sa, le cosiddette statistiche del pollo trilussiane, sembrano avere un valore piuttosto inattendibile alla luce delle svariate realtà capillarmente territoriali, dove, a fronte di tanta sfacciata ricchezza esiste tanta miserabile povertà.
Standard della felicità
In ambito puramente umano, sembra tuttavia di poter sostenere che il dolore del ricco che piange nella classica Rolls Royce non sia meno forte del dolore del povero. Ogni sentimento vive infatti nelle sue relative dimensioni, ammantato come da una coperta di Linus da quella comune uniforme che si chiama abitudine. Si tratta di quell’habitus che ci rende tutti simili, visto dal pensiero filosofico dell’età moderna per lo più in modo negativo, Kant e Rousseau insegnano.
È opportuno fare però una distinzione. Il ricco piange per qualsiasi perdita affettiva o materiale o d’ordine fisico cui non sfugge ogni essere umano, mentre il poveretto, divenuto ormai tetragono al dolore, non riesce nemmeno più a versare una lacrima non avendo ormai nulla da perdere perché ha già perso tutto, ma proprio tutto.
Va anche detto, per amore di obiettività, che il ricco non è persona che se ne sta in panciolle. Il ricco “buono” è colui che ha saputo costruire il suo benessere con un incessante lavoro lungo il corso di un’esistenza, nella salvaguardia costante ed onerosa del suo patrimonio e nel rispetto dei suoi dipendenti. E vogliamo dimenticare quanti di questi imprenditori si sono suicidati negli ultimi anni nell’impossibilità di mandare avanti l’azienda per crediti non riscossi dallo Stato?
Può anche accadere che il povero per un colpo di fortuna diventi ricco, rivelandosi il più delle volte incapace di gestire in modo oculato quell’improvvisa ricchezza caduta dal cielo. D’altro canto avviene anche che, preso dall’euforia della potenza offerta dal denaro, può diventare arrogante e irrispettoso del prossimo. Episodi personali ce ne rendono diretti testimoni. E non c’è cosa peggiore del cosiddetto “nuovo arricchito”, gongolante nella sua gretta ignoranza, di cui si vedono in giro, pur in conclamati tempi di crisi, degli splendidi esemplari degni di una giurassica società del Duemila. Come non c’è cosa più triste per il ricco che ha perduto i suoi averi di “ricordare il tempo felice nella miseria”.
Ricchezza e povertà, due componenti del tessuto sociale in perenne antitesi ma costruttive nel reciproco bisogno, fin quando la voglia di smodato arricchimento trasformi troppo spesso il povero in oggetto di deprecabile e inumano sfruttamento. Il “profitto” piovra dei tempi…
La mancanza di una lungimirante politica industriale, che ci vede oggi sguarniti dei grandi Gruppi trasferiti all’estero con la chiusura delle fabbriche di vecchia e gloriosa tradizione, lascia il povero in brache di tela in attesa di un “aleatorio” assegno di cittadinanza, peraltro necessario a tanti indigenti per uscire dal guado della disperazione, ma il cui peso graverà sulle spalle di tutti noi con più o meno occulti aggravi fiscali. Ma cosa vogliono gli italiani, uno Stato assistenziale o uno Stato capace di creare lavoro, unico, vero mezzo per la crescita e la sopravvivenza di tante piccole e medie imprese, coraggiose nella loro economica conduzione familiare, che costituiscono oramai la spina dorsale di ciò che rimane di un Paese in sofferenza.
Non solo. Da un lato si odono squilli di tromba circa un presunto “boom economico”, mentre dall’altro rimbombano tuoni di una pericolosa “recessione” per tutta l’Europa .
Felicità felicità, dove sei?

Ognuno ha il legittimo desiderio di dipingere in cuor suo un tipo diverso di felicità. Insomma, di fare delle scelte di vita. E ciò sembra un bene, perché la società diventa “malata” quando si adegua ad uno stile di vita regolato su schemi fissi, secondo le etichette imposte dalla modernità e dai diktat consumistici.
Non a caso viene in mente Diogene di Sinope (412-323 a.C.), il filosofo di scuola cinica, il quale ci ha lasciato alcune suggestioni che riguardano la “naturalità” dell’uomo, che lo stravagante Diogene vedeva perduta nella mediocrità di pensiero esistente già a quei tempi tanto lontani da noi. La crescita artificiale della società gli sembrava incompatibile con la verità e la bontà. La moralità, secondo il suo pensiero, porta con sé un ritorno alla natura e alla semplicità.
Se gli si chiedeva perché andasse in giro con la lanterna, rispondeva: “Vado in cerca dell’uomo”. Il “filosofo pazzo”, che si lasciava andare ad esternazioni le più spontanee, come compiere atti fisiologici in luogo pubblico (veniva considerato alla stregua di un “cane” e come tale amava comportarsi), riteneva che l’uomo deve rendersi libero di tutto ciò che non sia strettamente necessario a vivere.
Una volta che vide un giovane bere con le mani a mo’ di coppa, gettò via la sua ciotola di legno. E una volta che gli si chiese la sua provenienza, rispose di essere “cittadino del mondo intero” mettendosi a camminare, facendo così intendere che i suoi passi lo avrebbero portato in ogni dove. Piuttosto singolare a quei tempi questo suo “cosmopolitismo”, quando l’identità personale era strettamente legata all’appartenenza a una determinata “polis”.
La sua fama raggiunse persino Alessandro Magno, suo evidente nemico in quanto rappresentava, per così dire, i “poteri forti” dell’epoca, il quale, secondo gli storici del periodo, volle incontrarlo alla fine dei suoi giorni. Infatti, morirono entrambi a 89 anni. Il condottiero, dopo quell’incontro, disse: “Se non fossi Alessandro Magno, vorrei essere Diogene”.
Liberarsi dunque di tutto quanto non sia necessario? Non ce ne preoccupiamo. Stiamo sereni. A sgravarci dall’assillante pensiero, quanti ci amano stanno già pensando come condurci lentamente verso quella paradisiaca “decrescita felice”.
Andiamolo a raccontare al ricco signore dell’incipit, che a sua insaputa rispecchia il pensiero del filosofo greco come “cittadino del mondo”, ma, rigorosamente, con le sue “5 scarpe 5″…
Angela Grazia Arcuri