Omeopatia e medicina: la chimica della mente e la chimica del corpo

Ad x pensiero, corrisponde x stato di cose nella realtà materiale. È realmente assumibile tale dichiarazione? Quante volte difronte alla “realtà dei fatti” ci si è sentiti accusare di mancanza di oggettività di giudizio, di aver preso un abbaglio, di esser caduti vittima di suggestione o, addirittura, di paranoia? Nella maggior parte dei casi si è fortunati ad avere un grillo parlante che ci scrolli dal torpore in cui versano le idee quando circola poca aria nella camera stagna del cranio, altre volte, inconsapevolmente, senza che nessuno possa intervenire in alcun modo, cadiamo vittime dei così detti “bias cognitivi”. Sono dei giudizi, o meglio, dei pre-giudizi (perché influenzano il pensiero non ancora organizzato), frutto di interpretazioni fuorvianti che però, stando alle informazioni raccolte dalla nostra mente, sembrano quadrare.
A livello sotterraneo, il vissuto soggettivo di ognuno genera degli schemi mentali, delle donazioni di senso preconcette che vanno poi a permeare di volta in volta situazioni reali. Ma come? Allora la vita è una menzogna? Sono ineluttabilmente vittima di me stesso! No, è la forza dell’idealismo. Il mondo come frutto della nostra volontà rappresentativa, la vittoria dell’idea sulla materia, e non della materia sull’idea. Bisogna essere davvero così integralisti? A parer mio diventa quasi una necessaria tappa da romanzo di formazione la presa di coscienza che sì il mondo è in balìa delle mie rappresentazioni, ma che anche io sono in balìa del mondo. Tuttavia è innegabile l’influenza che certi meccanismi mentali esercitano nelle quotidiane decisioni.
Porto l’esempio del bias di ancoraggio: mi faccio un’idea del prezzo che la macchina che sto acquistando potrebbe avere, il prezzo propostomi è inferiore a quello da me supposto e lo accetto entusiasta nonostante sia maggiore rispetto al prezzo effettivo dell’auto. L’àncora è un punto di riferimento implicito da cui leggere le informazioni. Come è chiaro, la mente ci convince facilmente di cose non direttamente osservabili.
Conoscete i Fiori di Bach? Ma certo che li conoscete, spopolano su banconi e scaffali di farmacie ed erboristerie dell’ultima metà del secolo. Catalogata nelle fila della “medicina alternativa”, questa terapia floreale fa parte di quella branca di rimedi la cui unica efficacia clinica dimostrata è data dall’effetto placebo. A livello scientifico è di fatto l’azione mentale, la convinzione dell’individuo ad apportare miglioramenti anche consistenti contro l’affezione che lo attraversa. E qui gioca un ruolo importante il ben noto fattore psico-somatico. Nella pratica della medicina alternativa, assieme ai fiori di Bach risultano centrali per il nostro tempo i rimedi definiti “omeopatici”, che nascono e si basano sull’indimostrato principio similia similibus curantur, curare il simile con il simile. Un’idea questa, che Samuel Hahnemann maturò agli inizi del 1800, e che ad oggi sembra rifiorire.
Di fatto, il principio sostiene che sia possibile curare un morbo, somministrando al paziente la stessa sostanza che in un individuo sano determina i sintomi della malattia. Le basi scientifiche su cui poggia questa teoria sono inesistenti. Quando il principe Schwarzenberg, eroe della battaglia di Lipsia, decise di farsi curare da Hahnemann, morì a causa dell’inefficacia dei rimedi. Per quanto riguarda il medico britannico Edward Bach, ideatore della celebre terapia di cui sopra, c’è da dire che credette da doversi considerare nella cura dell’individuo, le sole emozioni assieme alla personalità del paziente, poiché cause dirette della sintomatologia presentata. I fiori sarebbero poi in grado di trasformare l’emozione da negativa in positiva e dunque andare ad eliminare il sintomo fisico considerato manifestazione finale di un più profondo malessere.
È più che giusto però attuare una distinzione in seno all’argomento: demonizzare l’omeopatia come qualsivoglia tipo ti medicina alternativa, non significa ritenere inefficaci i principi attivi di certe piante attualmente alla base di composti chimici farmaceutici e non. Mi riferisco alla “fitoterapia”, una procedura che prevede l’utilizzo di composti direttamente estratti dalle piante per la cura di diversi malesseri. Del resto l’utilizzo dei principi delle piante si ritrova nei sistemi terapeutici umani sin dall’antichità: queste sono dei veri e propri contenitori di sostanze chimiche medicamentose e non. Fu Ippocrate, fra III e II secolo a.C., il primo a definire con scienza i rimedi in base alle proprietà curative delle erbe. Tuttavia per Ippocrate la guarigione era da ricondursi direttamente alla capacità naturale del corpo, la forza vitale, di porre in equilibrio i liquidi “causa” della malattia. È la “teoria degli umori”, secondo cui il nostro corpo nelle sue molteplici manifestazioni, sarebbe governato da quattro umori, sangue, bile gialla, bile nera e flegma, causa, in caso di disequilibrio, di malattia, in caso di equilibrio, di salute. Alla fitoterapia si accompagna spesso il concetto di “fitocomplesso” intendendo con questa espressione l’insieme di una specifica quantità di principi attivi farmacologicamente e sostanze ausiliarie, sempre di origine vegetale, in grado, per interazione, di generare l’effetto benefico. Il fitocomplesso non è riproducibile per sintesi chimica. Il mondo vegetale, dunque, risulta essere una ricca fonte di sostanze e principi atti al mantenimento di una buona salute per l’uomo, tanto da spingerci a parlare di “piante medicinali” o “officinali” da opificina, il laboratorio dove le erbe venivano trattate e trasformate in preparati pronti all’uso.
Ma qual è il punto di incontro, il principio di similarità che ci permette di parlare negli stessi termini e di omeopatia e di medicina alternativa? Quello che suona come un incantesimo evocatore di spiriti ancestrali, “la memoria dell’acqua”. In merito a questa bizzarra chimera, la scienza ci insegna che l’unica cosa di cui dovremmo avere memoria è l’impossibilità per l’acqua di memorizzare alcunché, ma vediamo nello specifico di cosa si tratta. Il concetto di memoria dell’acqua venne introdotto nel 1988 da Jacque Benveniste, immunologo francese che credette di aver trovato la prova inconfutabile dell’efficacia dei rimedi omeopatici: la sua teoria poggiava sull’idea che i rimedi omeopatici, chimicamente composti da acqua e zucchero, conservassero memoria delle sostanze con cui venivano a contatto, memorizzandone le molecole (in questo caso, del principio attivo prescelto e supposto).
Le ricerche condotte dall’immunologo risultarono surrettizie e manipolate, pseudoscientifiche, in quanto l’acqua non mantiene relazioni significative con le molecole se non per un milionesimo di miliardesimo di secondo. A cosa vogliamo arrivare, dunque? Questo articolo non si arroga il diritto di tacciare di frode o truffa tutti quei prodotti assai costosi il cui contenuto viene distinto solo dalla giustapposta etichetta (parafrasando le parole della rappresentante della British Homeopathic Association Kate Chatfield ), e neppure di protestare contro il reparto di medicina integrata del San Raffaele di Roma, che si avvale della medicina ufficiale come della non ufficiale.
Mi piacerebbe invece porre l’accento sul trasversale ed importante meccanismo che sta alla base del successo di questi rimedi, un successo che brilla di luce riflessa, figlio del sopracitato, potentissimo, potere della mente, della convinzione, credenza, fede. Non è incausato il fatto di ritrovare improvvisamente la guarigione pur avendo ingerito delle praline di zucchero. Ponendomi positivamente, otterrò una diversa modalità di reazione alle affezioni che attraversano il mio corpo, per richiamarmi ad Ippocrate, sarò in grado di recuperare la forza vitale necessaria ad annichilire il mio fastidio avendo trovato nel rimedio prescelto un fedele alleato. Non stiamo dicendo che la mente guarisce il corpo, attenzione, tuttavia, per quei malesseri i quali sembrano legittimare il ricorso all’omeopatia e a terapie pseudoscientifiche, di fatto, la nostra fede nell’azione del rimedio a base di acqua e zucchero si vede addossare il 90% della responsabilità.
Sono di fatto le aspettative sollevate dalle promesse del farmaco alternativo ad innescare il meccanismo primariamente psicologico del placebo (dal latino placere, lett. “io piacerò”): il sistema nervoso produce una serie di ormoni in grado di modificare la percezione del dolore, destabilizzare il pregresso equilibrio ormonale e dunque influenzare la reazione immunitaria.
La mente influenza il corpo, ebbene sì, così come il corpo influenza la mente. L’età moderna, con specifico riferimento a Cartesio, ha di fatto sostenuto attraverso il dualismo mente-corpo, l’impossibilità per queste due realtà considerate su piani ontologicamente differenti, d’influenzarsi causalmente e, quindi, di comunicare. La svolta interazionista di Cartesio avvenne ne Le passioni dell’anima, dove, introducendo l’elemento mediatore della ghiandola pineale, sede dell’anima, andò ad edificare un ponte fra anima (mente) e corpo i quali iniziarono a comunicare grazie all’azione diplomatica di certi spiriti animali, messaggeri della ghiandola, col compito di permeare i nervi corporei. L’azione benefica, infine, dei medicamenti trattati, agisce allo stesso modo che un bias cognitivo: non trova riscontro nella realtà dei fatti, ma di fatto ci influenza. In mondo meno sotterraneo che per i bias, ci lasciamo soggiogare dalla forza delle nostre stesse aspettative, delegando alla fede in una boccetta con contagocce la soluzione per la nostra emicrania. Ma attenzione, dalla testa di Zeus nacque Atena, dea delle arti manuali, della guerra, e, primariamente, della sapienza.