Tra pancia e ventre: Matilde Serao

Figlia del giornalista Francesco, esule da Napoli per motivi politici, e della nobildonna greca Paolina Borely, Matilde Serao nasce il 7 marzo 1856 a Patrasso, in Grecia. Nel 1861, dopo il ritorno del padre a Napoli grazie a un’amnistia, Matilde e sua madre si trasferiscono in campagna, a Ventaroli, da alcuni parenti paterni. Nel 1865, all’età di nove anni, Matilde si trasferisce a Napoli, dove conseguirà, poi, il diploma di maestra presso la Scuola Normale “Pimentel Fonseca”. Successivamente, lavora presso l’ufficio postale di Napoli come telegrafista.
La sua carriera giornalistica ha inizio a Roma, città che la accoglie nel 1882: collabora con diverse testate giornalistiche, come “Nuova Antologia” e “Domenica Letteraria” e pubblica i suoi primi romanzi, tra cui “Fantasia”, che la impone all’attenzione del pubblico.
Il giornalista e critico letterario Edoardo Scarfoglio, sebbene stronchi il romanzo, rimane conquistato dalla Serao: è il 1885 quando i due si sposano. Dalla loro unione nascono quattro figli e nel 1885 fondano insieme il “Corriere di Roma”, che chiuderà, per mancanza di fondi, dopo soli due anni.
Dopo il fallimento del progetto editoriale, i coniugi Scarfoglio si trasferiscono a Napoli, grazie alla proposta di collaborazione ricevuta dal banchiere livornese Matteo Schilizzi, proprietario del “Corriere del Mattino”. La collaborazione ebbe vita breve: nel febbraio del 1892 Matilde e suo marito lasciarono il giornale di Schilizzi per fondare “Il Mattino”, destinato a diventare uno dei quotidiani più influenti del sud Italia. Nel 1904, dopo la dolorosa separazione da Scarfoglio, Matilde fonda, insieme al suo nuovo compagno, l’avvocato Giuseppe Natale, “Il Giorno di Napoli”. Matilde Serao diventa così la prima donna italiana a dirigere un quotidiano.
Il ventre di Napoli
Matilde Serao è stata una prolifica autrice e il suo opus artistico, spesso dimenticato o, comunque, non considerato con la giusta attenzione che meriterebbe, comprende oltre 40 volumi tra romanzi e racconti. Aderisce al verismo, ma lo fa a modo suo: ha una forte attenzione allo status sociale dei suoi tempi, incentra i suoi racconti, pregni di una narrazione emotiva, su donne, povertà e popolo.
A differenza di molti suoi colleghi uomini, non faceva parte dei predominanti circolini intellettuali: scriveva per il popolo senza necessariamente compiacere le mode accademiche. Il suo stile, a metà tra impegno civile e romanzo, non rientrava affatto nei canoni critici del tempo. La sua carriera giornalistica ha fatto passare, involontariamente, in secondo piano la sua produzione letteraria.
Il ventre di Napoli è senz’altro un’opera emblematica, complessa e straordinariamente rappresentativa della questione meridionale alla fine dell’800. Il libro, uscito originariamente nel 1884 e ampliato poi nel 1904, come evidenziato dalla stessa autrice, è stato scritto in tre epoche diverse. La prima parte è ambientata nel 1884, anno in cui un’epidemia di colera colpisce Napoli. La seconda parte è scritta venti anni dopo, nel 1903, anno del risanamento della città.
“La terza parte – scrive la Serao- è di ieri, è di oggi, né io debba chiarirla, poiché essa è come le altre: espressione di un cuore sincero, di un’anima sincera: espressione tenera e dolente: espressione nostalgica che è triste di un ideale di giustizia e di pietà, che discenda sovra il popolo napoletano e lo elevi o lo esalti!”.
Nella prima parte del libro, la Serao scende nelle viscere di Napoli e lo fa rivolgendo un invito al presidente Depretis: “Bisogna sventrare Napoli”. La Serao descrive la condizione del popolo napoletano ai tempi del colera sotto vari punti di vista: narra dei miseri guadagni del popolo, costretto a vivere in quattro quartieri popolari senza aria, senza luce, senza igiene. “Queste trentaquattro lire un lavoratore napoletano le guadagna in un mese: chi porta una lira in giornata a casa, si stima felice”.
Descrive quello che mangiano, parlando dell’arte popolare di arrangiare con pochi spiccioli un pasto.
“Appena ha due soldi, il popolo napoletano compra un paio di maccheroni cotti e conditi: tutte le strade dei quartieri popolari hanno una di queste osterie che istallano all’aria aperta le loro caldaie, dove i maccheroni bollono sempre, i tegami dove bolle il sugo di pomodoro, le montagne di cacio grattato”.
L’autrice non perde occasione per narrare, sorpresa ed entusiasta, dello spirito dei napoletani e delle grandi capacità di sopravvivenza, nonostante la povertà, il morbo e la morte. È un popolo che non smette di sognare, nonostante le avversità: “ebbene il popolo napoletano rifà ogni settimana il suo grande sogno di felicità. Il lotto è il largo sogno che consola la fantasia napoletana: è l’idea fissa di quei cervelli infuocati; è la grande visione felice che appaga la gente oppressa; è la vasta allucinazione che si prende le anime”.
La seconda parte del libro riguarda il piano di risanamento della città, venti anni dopo il colera. Molti quartieri sono stati abbattuti per fare spazio a nuove strade, come il Rettifilo. Tuttavia, la Serao critica il lato speculativo del piano di risanamento, che non è riuscito a risolvere il problema sociale e il degrado urbano: “il popolo napoletano non si è mosso dal suo basso, dovunque il basso si trovi, sia una bottega quasi pulita o sia un buco oscuro e insalubre”.
Nella parte conclusiva, Matilde Serao chiede l’applicazione della legge umana e sociale, esortando la classe politica a fare il proprio dovere verso il popolo napoletano dei quattro quartieri. Il ventre di Napoli rappresenta non solo un esempio pioneristico di giornalismo narrativo, ma anche- e soprattutto- una vibrante denuncia sociale, ancora oggi, per certi versi, drammaticamente attuale.
Lo sguardo di Matilde Serao, mai distaccato ma nemmeno compassionevole, affida alla parola il compito di scuotere le coscienze. Con Matilde Serao si comprende la differenza tra pancia e ventre, tra ideologia e analisi: la differenza, in fondo, tra raccontare e comprendere.