Immigrazione e terrorismo: qual è la cosa giusta da fare?

L’immigrazione clandestina è da anni uno dei temi più scottanti dell’agenda politica italiana, ma nelle ultime settimane, con l’accentuarsi delle crisi in Libia e la minaccia dell’Isis di utilizzare quel canale per infiltrare combattenti jihadisti tra i migranti, il dibattito ha preso particolare vigore. Su un punto in particolare sembra esserci una convergenza totale delle opinioni: le Nazioni Unite, con l’Italia in primo piano, devono intervenire per risolvere questa situazione. Le divergenze iniziano, tuttavia, sulle modalità di intervento e su come gestire l’immigrazione clandestina nel frattempo. Su quest’ultimo punto, ci sono posizioni radicalmente diverse. Da un lato, sotto l’espressione ‘ci portiamo il nemico in casa’, si raccolgono tutti coloro che vorrebbero una chiusura delle frontiere e un intervento sulle coste nord africane per impedire la partenza dei barconi. Tra le ragioni dei sostenitori di questa posizione, è importante sottolinearlo, c’è anche la preoccupazione per il gran numero di morti nei viaggi clandestini. Dall’altro lato, ci sono coloro che, nella convinzione che non tutti gli immigrati sono terroristi e sollecitando le ragioni ‘umanitarie’ dell’aiuto, propongono di continuare con l’operazione europea Triton, entrata in vigore dal 1 novembre 2014, cercando di evitare le ‘tragedie in mare’ attraverso il controllo delle frontiere. Il tema, come emerge da questo breve ritratto delle posizioni in campo, è complesso e dire qualcosa di pertinente è impresa assai ardua. Quello che ci proponiamo qui ha uno scopo molto più modesto. Inserendoci nel solco della filosofia morale di stampo pragmatistico-americano, vogliamo offrire al lettore una chiave di lettura per analizzare la profondità delle motivazioni di ogni schieramento, in modo che egli possa ‘articolare’ ancora meglio la sua opinione in materia.
In particolare, racconteremo una vicenda che il filosofo americano Michael Sandel, professore all’università di Harvad, narra spesso nei suoi celeberrimi cicli di lezioni per far capire agli studenti la difficoltà e l’importanza dell’articolazione delle posizioni morali su temi controversi: la storia dei caprai afghani. É bene avvertire il lettore che alla fine della storia non faremo nessun commento, né cercheremo di legare le posizioni dei personaggi della storia a quelle di coloro che sono coinvolti nell’odierno dibattito, che anche sopra abbiamo evitato di menzionare. Questo nella convinzione che il personale lavoro di ‘collocazione’ e confronto di ogni personaggio della vicenda con quelli attuali costituisca un proficuo esercizio per affinare le idee in merito al problema attuale. Ma attenzione a non commettere l’errore opposto: la storia, anche nella sua conclusione, non vuole offrire un insegnamento, ma solo mostrare l’importanza di ponderare con attenzione le proprie decisioni.
La vicenda, realmente accaduta, è quella di un corpo di forze speciali americane, composto da un sotto-ufficiale e tre militari, mandato nel 2005 in una zona di confine tra Afghanistan e Pakistan per trovare l’accampamento di un gruppo cospicuo di talebani e farli uscire allo scoperto. Prescelto un luogo per l’agguato, i quattro si imbattono in due contadini e un ragazzo con al seguito un centinaio di capre. Spaventati dalla vista dei militari, i tre si professano dei civili, non schierati nella guerra in atto, e giurano, tra pianti e lamenti, che non avrebbero mai rivelato la posizione del piccolo commando al gruppo di talebani. Il tempo scarseggiava e non essendoci corde per legare i tre malcapitati, ai militari rimanevano due opzioni: o uccidere i tre a sangue freddo, o lasciarli andare. Per la prima soluzione propendeva uno dei militari, il quale prospettava, in caso di soffiata dei contadini, il fallimento della loro missione e rivendicava l’importanza delle ragioni militari per le quali erano stati inviati. Il sotto-ufficiale, pur riconoscendo la validità di queste argomentazioni, come ‘uomo di fede’ non se la sentì di uccidere degli uomini disarmati. Misero la questione ai voti ed il suo, in particolare, fu decisivo perché degli altri due, uno votò come lui e l’altro si astenne. Purtroppo, come si suol dire, il seguito è storia: i caprai, lasciati andare, informarono i talebani che subito circondarono lo sparuto gruppo, uccidendo tutti i compagni del sotto-ufficiale e 16 altri militari americani, venuti in loro soccorso. L’unico a salvarsi, per miracolo, fu il sotto-ufficiale che ad anni di distanza, conoscendo le intenzioni dei caprai, avrebbe sicuramente cambiato il suo voto. La cosa interessante, spiega Sandel, non è l’esito concreto della vicenda, quanto la qualità e le motivazioni delle posizioni in campo. Cosa sarebbe successo se i militari, pur conoscendo la fedeltà alla causa statunitense dei caprai, avessero ipotizzato uno scenario nel quale quest’ultimi, sotto tortura dai parte dei talebani, avessero rivelato la loro posizione comportando il fallimento della missione? Qual era, in questo caso, la cosa giusta da fare?
di Paolo Santori
19 febbraio 2015