Che ne resta del Senato?

Mai come in questi mesi, il Senato della Repubblica italiana è stato così tanto al centro delle discussioni politiche. “Se aboliamo il Senato aboliamo la democrazia” è il grido di terrore di alcuni; “Se aboliamo il Senato velocizziamo la procedura democratica e diminuiamo i costi” rispondono sicuri altri.
Ma che cosa significa, in questo contesto, il termine “abolire”? E, ancora più importante, quali sono le funzioni più significative del Senato oggi, che non saranno incluse nel “Senato delle autonomie” del probabile domani?
Come recitato dall’art. 58 della Costituzione, l’elezione dei senatori è oggi a suffragio universale e i seggi vengono ripartiti in proporzione alla quantità di popolazione di ciascuna regione. Possono votare tutti i cittadini che hanno compiuto il venticinquesimo anno di età e i senatori possono essere eletti solo dopo aver superato i 40 anni. Questi ultimi, insieme ai senatori a vita di diritto (ex Presidenti della repubblica) e i 5 nominati dal Presidente della repubblica per “aver illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, sono in totale 315 membri.
Essenziale è l’art. 67 della Costituzione: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. La prima parte di questa espressione descrive l’Italia come un “bicameralismo perfetto”. Il ruolo del Senato, e dunque di ciascun senatore, è esattamente uguale a quello della Camera dei deputati. L’iter di approvazione di una legge, infatti, non può prescindere dall’ottenere la maggioranza in entrambe le camere per venire completato. Anche tutte le altre funzioni, poi, sono svolte allo stesso modo dai due organi legislativi: accordare o revocare la fiducia al Governo; nominare alcuni membri della Corte costituzionale; eleggere il Presidente della repubblica ecc. Ma ciò che è ancora più interessante è la seconda parte dell’articolo 67: l’assoluta negazione del vincolo di mandato. Non bisogna dimenticare, infatti, che il Parlamento, seppur votato dal popolo, deve rimanere libero secondo la Costituzione. Questa precisazione è inserita per evitare che i parlamentari siano vincolati dagli interessi particolari dei loro elettori e perdano di vista l’obiettivo comune: il bene pubblico. Per dirla con Rousseau, dovranno sempre rappresentare la volontà generale e non la volontà di tutti.
Nell’art. 69 si afferma infine che tutti i parlamentari riceveranno un’indennità per la loro attività, che verrà stabilita dalla legge.
Eccoci arrivati al punto decisivo: di tutto questo complesso sistema, che cosa ci resta? Che cosa significa “Senato delle autonomie” secondo il nuovo disegno di legge?
Iniziamo con l’abolizione della prima parte dell’art. 67: non è più ogni membro del Parlamento a rappresentare la Nazione, bensì soltanto ogni membro della Camera dei deputati. E già, perché il nuovo disegno di legge vuole abbandonare il sistema del bicameralismo perfetto. Solo nel caso in cui si tratterà di votare proposte di riforma costituzionale, infatti, il potere legislativo resterà bicamerale e la legge dovrà attendere entrambe le approvazioni per poter essere emanata. In tutti gli altri casi sarà sufficiente che le leggi raggiungano la maggioranza nella Camera dei deputati. Che resta allora al Senato in queste occasioni?
Se entro dieci giorni dall’approvazione alla Camera della legge ordinaria, il Senato raggiunge l’ok di un terzo dei suoi componenti può procedere a un esame del disegno di legge. Un esame, della durata massima di trenta giorni, che ha come esito la proposta di “eventuali” modifiche da apportare al disegno, che a questo punto tornerà alla Camera.
Fatemi capire, se dopo un mese di lavoro la Camera rigetta le “proposte”, sarà mantenuta la legge così come era stata scritta all’origine? Sembra proprio così. Ma non ci spaventiamo, la Svezia ha un sistema monocamerale eppure è uno dei paesi più ricchi del mondo. Certo, sarebbe bello se insieme al modello legislativo ereditassimo anche il loro senso civico. Ma proseguiamo.
Ciò che sicuramente cambia in maniera decisiva rispetto al vecchio Senato è la modalità di elezione dei membri. Non più il voto popolare diretto, ma elezione a carattere “locale”. Ciascun consiglio regionale nomina due senatori e lo stesso fa ciascun collegio dei sindaci di regione. Ad essi si aggiunge il Presidente della Giunta regionale o delle provincie autonome. Diviene senatore poi anche ciascun sindaco dei comuni capoluoghi di regione (o della provincia autonoma) per un totale di 122 senatori. Il sistema che stabiliva un diverso numero di senatori a seconda del numero dei cittadini della ragione viene quindi abbandonato. Scompare inoltre il requisito dei 40 anni d’età e quello dell’indennità. Una soluzione non lontana dal Bundesrat tedesco in cui i senatori sono eletti e vincolati dai Länder territoriali. Ciò che si distanzia dal modello tedesco è però il fatto che ci troveremmo in questo caso nella condizione per cui i sindaci dei capoluoghi di regione, già detentori di una funzione che li occupa quotidianamente, dovranno svolgere anche l’attività da senatore, senza neppure ricevere alcun compenso economico aggiuntivo (beh non credo gli si rifiuteranno le spese per raggiungere Palazzo Madama). Ma le novità non finiscono qui. A tali senatori, infatti, si aggiungono i 21 membri nominati dal Presidente della repubblica per aver “illustrato la Patria per altissimi meriti […]” (Già, proprio la stessa formula che prima ne premiava soltanto cinque). Questi, in carica per sette anni, saranno infine accompagnati dai senatori a vita perché ex presidenti. Il totale sarà di 148 senatori: da 315 una bella riduzione.
Insomma, la questione non è affatto semplice e gli aggiustamenti saranno presumibilmente ancora molti, ma di una cosa possiamo essere sicuri: se il Senato delle autonomie sarà definitivamente approvato, non saremo certo noi elettori – se non per via davvero indiretta – a scegliere chi vi parteciperà. Finalmente una scheda-elettorale-impossibile-da-ripiegare in meno: che sollievo!
di Alice Andreuzzi
13 maggio 2014