Diogene o il pericolo del comfort

Se c’è un personaggio che non ha bisogno di presentazioni, anche in un’epoca nella quale la filosofia non occupa più un posto privilegiato nella vita pubblica e nella quotidianità degli individui, è Diogene di Sinope. A distanza di millenni rimangono dilettevoli ma soprattutto densi di significato gli aneddoti sulla vita del ‘Socrate pazzo’, specialmente quelli raccontati nelle Vite dei filosofi del suo omonimo Diogene Laerzio. Qui basti ricordarne alcuni. Diogene visse al tempo di Platone, Aristotele e Alessandro Magno ma lo fece in maniera del tutto peculiare. Si racconta che girasse per la città con una bisaccia, un lungo mantello e una ciotola; che non avesse una casa, ma che una botte fosse il suo giaciglio notturno; che vivesse dell’essenziale, tanto da rinunciare alla sua ciotola una volta visto un giovinetto abbeverarsi con le mani ad una fonte; che interrogasse le persone per strada, sfidando il senso comune con grande irriverenza; che davanti ad Alessandro Magno, interrogato sulle sue necessità, chiese al re dei Macedoni di spostarsi per lasciar passare il sole. Insomma, una figura fuori dal comune, oggi ripresa da molti come modello di emancipazione dalle convenzioni sociali e dai doveri da queste derivanti.
Eppure nella Scuola di Atene Raffaello, probabilmente su suggerimento del filosofo agostiniano Egidio da Viterbo, non ritenne di escludere Diogene dal consesso dei filosofi, pur isolandolo in primo piano (con affianco l’immancabile ciotola) per enfatizzare una differenza sostanziale con gli altri personaggi. Alcuni studiosi hanno interpretato la decisione di Raffaello come un preciso messaggio sulla figura di Diogene, da intendersi non tanto nel solco di una una rottura totale con la società e i suoi costumi, quanto piuttosto come critica inflessibile delle storture e delle ingiustizie ivi presenti. In quest’ottica il ‘Socrate pazzo’ non si pone in antitesi alle convenzioni e ai doveri del vivere in comune, così come viene proposto dal mainstream dei nostri tempi, ma cerca di capirne le reali potenzialità e di svilupparle attraverso il confronto con i cittadini. Sebbene sia interessante notare come lo stesso personaggio diventi, a seconda delle letture, veleno o cura per la società (identica ambiguità la ritroviamo nel significato del termine greco pharmakon) qui non possiamo esimerci dal prendere posizione rispetto a una delle due alternative. In conformità allo spirito della rubrica, infatti, il giudizio su un autore o un fatto diventa la chiave di lettura per la contemporaneità e, in questo caso, sulla doppia tendenza all’anticonformismo e al comfort della nostra società.
Adeguandoci alla proverbiale franchezza di Diogene cercheremo di illustrare i concetti di comfort e anticonformismo a partire dalla vita quotidiana delle persone, senza troppi giri di parole. Con comfort intendiamo 1) le situazioni/azioni della giornata che implicano un basso dispendio di energie, 2) il piacere provato nel viverle/compierle. In questo senso possiamo chiamare beni di comfort i mezzi che ci permettono raggiungere il comfort, così come per esempio la TV via cavo ci permette di vedere un film senza andare al cinema o i dizionari online di lingua ci risparmiano la faticosa ricerca manuale. Non è un mistero che il sistema di produzione capitalistico renda possibile e desiderabile la capillare distribuzione di questo tipo di beni tra tutte le classi della società. Ciò che invece rimane adombrato, e che con l’aiuto di Diogene cercheremo di svelare (a questo proposito si noti che aletheia, verità, aveva il preciso significato di ‘disvelamento’), è come l’eccesso di beni di comfort sia dannoso nella vita delle persone.
A livello teorico tutti concordiamo sul fatto che la lavatrice o la lavastoviglie siano un beneficio nella quotidianità di una famiglia. Il giudizio diventa incerto in questi casi: 1) ragazzi che amano sempre più intrattenersi con i videogiochi (anche in coppia, ma generalmente da soli) che uscire a giocare fuori casa; 2) adulti che preferiscono una tranquilla serata di fronte alla TV piuttosto che uscire per una cena con amici; 3) persone che passano la giornata sui social network, assumendo una grande quantità di informazioni, ignorando le notizie di attualità (politica, economia ecc.); 4) […]. Poi ci sono casi in cui il giudizio credo sia unanime: 1°) bambini, ragazzi e adulti che passano tutto il giorno (e la notte) su chat, forum e giochi online; 2°) persone che, se escono, passano la cena con lo smartphone a tavola interrompendo le conversazioni e guastando la qualità della compagnia; 3°) cittadini incapaci di esprimere un voto ponderato, capaci cioè di discorrere per ore su serie TV, crimini e gossip ma non su temi sociali importanti (mi viene in mente, perché attuale, il referendum); 4°) […]. Il primo, naturale pensiero è che le situazioni 1 e 1° (2 e 2°, 3 e 3°) siano tra loro collegate, cioè che un eccesso di beni di comfort crei una ‘dipendenza’ derivante dalla facilità del loro uso rispetto ad altri. È meno faticoso accendere la TV e passivamente assistere che uscire di casa; ancora, diventa sempre più faticoso uscire di casa tanto più uno si abitua a rimanere davanti alla TV tutte le sere. Questi temi non furono sviluppati da Diogene, che invece ci tornerà utile tra poco, ma dall’economista e psicologo Tibor Scitovsky che nel 1976 distinse i beni di comfort da quelli di ‘creatività’. Quest’ultimi richiedono costi di attivazione (fatica) più alti, richiedono una partecipazione maggiormente attiva, ma sono anche quelli che innalzano la qualità della vita di una persona. In altre parole, la nostra felicità è strettamente legata tanto al piacere quanto all’impegno che dedichiamo alle cose che facciamo.
A questo punto mi aspetterei una durissima critica. Chi non riuscirà a capire la logica inclusiva del mio ragionamento, felicità=beni di comfort + beni di creatività, mi contesterà infatti un insopportabile paternalismo, cioè la pretesa di pontificare su ciò che è meglio fare o essere. La tesi dell’anticonformismo, che riprende Diogene come uno dei suoi più antichi modelli, si sostanzia proprio in tale critica e la rivolge ai ‘costumi’ della società in generale. Non ci sono cose ‘migliori’ o ‘giuste’ da fare, ma ci sono soltanto scelte individuali (o collettive) lasciate al libero arbitrio delle persone. La mia replica: niente di più sbagliato. In primo luogo è Diogene, loro modello, a mostrarci come anche nelle cose ‘fuori dal comune’ sia necessario impegno. Il filosofo greco, tra le stranezze, passava le sue giornate a interloquire con uomini di ogni estrazione sociale, era ingegnoso nelle sue attività (si racconta che creò un doppio mantello che fungesse anche da coperta), studiava e insegnava a coloro che lo richiedevano. Riusciva cioè a vivere ‘creativamente’ anche situazioni che normalmente giudicheremmo banali, se non quando riprovevoli.
In secondo luogo, e mi avvio così alla conclusione, è profondamente sbagliata l’idea che sia la libertà di scegliere un’opzione o un comportamento a rendere l’opzione o il comportamento meritevoli di essere considerati. La grande conquista della modernità occidentale, la libertà, ha tutt’altro significato. Noi siamo liberi di aderire a cose che riteniamo importanti, ma il giudizio su queste cose rimane scollegato dalla nostra capacità di aderirvi. Così affermare che i beni di creatività siano strettamente collegati alla felicità, e che invece il predominio del comfort sia dannoso, è una tesi che non può essere contesta appellandosi all’anticonformismo e alla sua snaturata idea di libertà. La nostra società necessita di ristabilire categorie oramai dimenticate o sepolte come l’impegno, la connessione tra felicità e relazioni con altre persone (beni relazionali), l’importanza della vita pubblica e così via. È questo che Diogene avrebbe implacabilmente urlato nelle nostre piazze. L’articolo, probabilmente troppo lungo e mal argomentato, è stato scritto nella speranza di riempire quelle piazze e non lasciare il grido nella vanità del delirio di un pazzo, sia anch’esso un Socrate.