Il sacrificio: il pane della generazione della Roma trasteverina degli anni ’60

Trastevere si sveglia lentamente. Il Bar San Calisto è già vivo: qualcuno legge il giornale, altri entrano solo per un saluto e qualche battuta veloce. Qui il caffè è qualcosa di più di un semplice caffè, sa di famiglia, e il tempo scorre ad un ritmo diverso, scandito dai rumori della piazza qui vicino, di Santa Maria in Trastevere, e dalle tazzine che vengono appoggiate sul bancone.
Marcello è il proprietario di questo luogo, un’istituzione tutta romana che ha attraversato generazioni e tanti, tantissimi sacrifici. Attraverso le sue parole e quelle del figlio Valerio, la storia di questo bar si è trasformata da una semplice chiacchierata di fronte ad un caffè, al racconto del lavoro di tutta una vita, incorniciata dai vicoli della capitale.
Più di 50 anni al servizio di un bar, un figlio, un progetto. È stato un percorso tortuoso quello che l’ha portato a diventare il proprietario del Calisto?
“Beh, pensavo fosse più facile. È una fatica sia fisica che mentale. A Roma sono arrivato che non avevo nemmeno 14 anni. Mi ha trovato un posto di lavoro mio cugino come lavapiatti, poi ho fatto il militare, ho lavorato per l’aeronautica e infine sono andato a lavorare a Capo de Fero fino al ’68. Pagavo 6000 lire per un posto letto.
Sono venuto dall’Abruzzo nel ’60. Inizialmente mio padre e mia madre non l’hanno presa tanto bene perchè ero troppo piccolo per loro per partire. Prima si partiva dal Paese perché non c’erano i soldi: per comprarti un paio di scarpe dovevi fare sacrifici. Tutti quanti andavano a Roma a fare il lavapiatti, poi c’era chi diventava cameriere, chi ristoratore.
Mi ricordo che la sera che sono partito non ho mangiato, la mattina dopo nemmeno. Poi ho pranzato e la sera mi hanno messo subito a lavorare. La moglie del proprietario mi chiedeva “che hai fatto?” perché piangevo e così mi ha consolò dandomi da mangiare un pò di pesce fritto.
Abbiamo preso il Calisto io e un mio amico mentre lavoravo a Capo de fero. Lui è stato mio socio per 3-4 anni e poi se ne è andato e ho dovuto chiamarne un altro perché ero rimasto da solo. Poi un altro ancora. Infine è venuto Fabrizio e ora ci sta anche mio figlio che al quarto superiore ha lasciato la scuola ed è venuto a lavorare qua”.
I tempi cambiano, la storia rimane. Come è si evoluto il lavoro nel Calisto?
“La gente adesso i sogni non li ha più. Quando ero ragazzo aspettavo il padrone che apriva bottega e da adulto non sono mai andato al mare con mia moglie o mio figlio perchè lavoravo. Il giovane di oggi, invece, non ambisce più a migliorarsi, nasce lavapiatti e vuol morire lavapiatti. Noi abruzzesi e amatriciani abbiamo fatto la storia e ora la generazione è finita e con noi il nostro modo di lavorare.
Questa vita non la vuol far nessuno, è dura. Prima non esisteva il risposo settimanale. Io per i primi tempi facevo dalle sei di mattina alle 2 di notte, un’intera tirata. Quando poi lavoravo dalla mattina alla sera mi sono ammalato.
Il lavoro però è meglio adesso. Io sono arrivato qui nel ’69 e c’erano già due bar a Santa Maria così ci arrangiavamo portando i caffè ai ristoranti e piano piano abbiamo tentato di tirarlo su. Poi negli anni ’70-80 è arrivata l’ondata della droga e abbiamo sofferto da morire perché io avevo lavorato in cucina e certe scene non le avevo mai viste. Ho anche pensato di lasciare perdere tutto. Poi è andata bene però.
Abbiamo sempre seguito una politica di “Prezzi giusti, prodotti buoni”. La concorrenza non c’è. Facciamo il nostro lavoro e siamo in buon rapporti con tutti. Sicuramente è cambiata la clientela: prima era più gente romana a frequentare il bar, ora ci sono molti più turisti.”
Il Calisto è romanità e famiglia, è d’accordo con questa definizione?
“Qui c’è passato il mondo. Un sacco di gente del cinema, è venuto anche Capolicchio. Io ero amico di Rossellini. Qui è una cosa più familiare, entri e ci salutiamo. Tanti entrano e se ne vanno, qui il rapporto è di amicizia. Ci sono stranieri che vengono e mi dicono “ciao Marce”. Adesso mi sa che siamo rimasti gli ultimi.
Prima c’era la bisca, c’era il biliardo. Qui ci venivano anche quelli della banda della Magliana, ma si comportavano bene. Le forze dell’ordine dicevano “cacciali via” o “aumenta i prezzi”. Ma se aumentavo i prezzi solo chi era povero non veniva più, non loro. Insomma i “peggio” si comportavano meglio perché ti pagavano. Quelli di zona, invece, non ti pagavano mai. “Io so di Trastevere” questa era la loro mentalità.
Il lavoro era sicuramente di meno, ma adesso il bar non è più così tanto un luogo di aggregazione.”

Abbiamo poi avuto la fortuna di parlare con Valerio, figlio di Marcello e custode dell’eredità di questo bar dal cuore metà abruzzese, metà romano, e l’anima tutta trasteverina che ci racconta di una generazione nuova che raccoglie i frammenti di una storia che continua a pulsare nel centro di Roma.
Il Calisto è una realtà tradizionale che però ha scelto di puntare anche su una presenza social e più virtuale del bar. Come sta andando quest’aspetto?
“La parte social la gestisce una società a cui ho dato carta bianca. Tutto è iniziato dopo che 7 anni fa ho visto fare una foto al bar e pubblicarla. Ci siamo sentiti e abbiamo iniziato la collaborazione. Sono molto bravi si occupano del grafica anche se io sono dell’idea che a questo bar non serve anche una presenza virtuale perchè è conosciuto, è un bar di altri tempi.
C’è stata poi NSS edicola che mi ha contattato. Penso sia una bella realtà. Abbiamo fatto un primo evento, il secondo è stato un aperitivo la domenica. Penso che potremo collaborare ancora, anche se non so quando.”
Trastevere non è più la Trastevere degli anni ’60. Tanti giovani la frequentano soprattutto la sera. Come si lavora attualmente e con le nuove generazioni?
“Penso che attualmente si lavora meglio dalla domenica al giovedì. Nel weekend c’è più preoccupazione perché l’età di chi consuma l’alcol si è abbassata. Devi chiedere i documenti, devi stare attento ed è diventato quasi un doppio lavoro. Siamo fortunati però perché le forze dell’ordine anche se sono inferiori, numericamente parlando, il quartiere comunque lo coprono tutto perché Trastevere porta tante persone, troppe.
Io dico sempre che qui non vengo a lavorare. Per me è un giocattolo, i bambini vanno al parco e io vado al mio bar. È storia, passioni e per questo motivo penso che la sua eredità non possa morire così.”