La rivoluzione gentile di Rocco Chinnici

Se c’è un vizio tutto italiano, è quello di ricordarsi dei propri eroi quando ormai è troppo tardi. Rocco Chinnici, magistrato palermitano assassinato dalla mafia il 29 luglio 1983, è uno di quegli uomini il cui nome viene pronunciato con deferenza nei convegni, ma che in vita fu lasciato troppo solo dallo Stato che serviva con dedizione assoluta. Il libro L’Italia di Rocco Chinnici, storie di un giudice rivoluzionario, edito da Minerva, non è solo una biografia, ma un viaggio in quella che avrebbe potuto essere un’Italia diversa, se solo la sua lezione fosse stata ascoltata.
Un pioniere tra i burocrati
Chinnici è stato un magistrato che ha avuto il coraggio di guardare la mafia negli occhi, senza retorica e senza illusioni. Fu lui a comprendere, prima di tanti altri, che Cosa Nostra non era un problema di ordine pubblico da delegare ai carabinieri e alla polizia, ma un fenomeno sociale ed economico radicato nel tessuto stesso del Paese. La sua intuizione più rivoluzionaria, che oggi sembra quasi scontata, fu quella di creare un pool di magistrati che lavorassero in squadra, evitando l’isolamento e l’eliminazione sistematica dei giudici più scomodi. Un’idea che poi sarebbe stata ripresa e perfezionata da Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma che porta la firma originale di Chinnici.
Il libro di Minerva restituisce un ritratto vivido di un uomo che non si limitò a fare il magistrato con scrupolo, ma che fu un autentico innovatore. Il volume ripercorre la sua carriera, dalla lotta contro la corruzione alla denuncia della collusione tra mafia e politica, fino alla sua tragica fine. Ma ciò che rende la lettura davvero preziosa è la ricostruzione del contesto in cui operava: un’Italia in cui la parola “mafia” si pronunciava a mezza bocca nei salotti della politica e dell’imprenditoria, mentre i pochi che osavano affrontarla venivano isolati, delegittimati o eliminati.
L’eredità tradita
La vicenda di Chinnici è la storia di un uomo che aveva capito troppo e troppo presto. Il libro, con una prosa asciutta ma incisiva, racconta non solo il magistrato, ma anche il padre, l’amico, il collega. Ne emerge l’immagine di un uomo appassionato, consapevole dei rischi ma mai disposto a fare un passo indietro.
Una delle parti più toccanti del libro è quella che ripercorre il suo impegno con i giovani: Chinnici fu tra i primi a capire che la lotta alla mafia non si vince solo nei tribunali, ma anche nelle scuole, spiegando ai ragazzi che la cultura mafiosa si annida nelle piccole scelte quotidiane. Un’idea rivoluzionaria, che oggi viene sbandierata da molti ma che all’epoca era vista quasi con sospetto.
Eppure, come spesso accade in Italia, il suo sacrificio non ha insegnato abbastanza. A quarant’anni dalla sua morte, la mafia non ha più il volto dei corleonesi armati di lupara, ma continua a prosperare nei consigli di amministrazione, nelle logge massoniche deviate, nei palazzi del potere. Il libro di Minerva non si limita a raccontare il passato, ma ci costringe a interrogarci sul presente: cosa resta dell’eredità di Chinnici? Quali delle sue intuizioni sono state raccolte e quali, invece, sono state sepolte sotto la coltre dell’indifferenza e della rimozione?
Un libro necessario
In un panorama editoriale spesso saturo di biografie celebrative e retoriche, L’Italia di Rocco Chinnici (Minerva Edizioni) si distingue per il suo rigore e la sua onestà intellettuale. Non c’è solo l’agiografia dell’eroe, ma anche il ritratto di un uomo che, come tutti, aveva le sue fragilità e le sue paure. Un libro che andrebbe letto nelle scuole, non solo per ricordare il magistrato Chinnici, ma per comprendere quanto sia difficile e pericoloso in Italia il mestiere di chi cerca davvero di cambiare le cose. Perché alla fine, la storia di Rocco Chinnici non è solo la storia di un magistrato. È la storia di un Paese che avrebbe potuto essere migliore, se solo avesse avuto il coraggio di seguirne l’esempio.