Il limbo urbano a Città del Guatemala
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“A Città del Guatemala le tienda (i negozi) hanno le grate. I negozi si affacciano sulle strade ma, nella maggior parte dei casi, non si entra. Ci si avvicina, si chiede di cosa si ha bisogno e si attende. Una fessura più larga permette di porgere i prodotti più voluminosi, altrimenti è sufficiente infilare tra le sbarre una mano”.
Note di questo genere, contenute nel saggio di Paolo Grassi- Il limbo urbano, edito da ombre corte -, aiutano a capire come la popolazione guatemalteca della capitale affronti il problema della criminalità. Nel suo scrivere la violenza, l’antropologo adopera la tecnica del racconto a strati, che alterna in maniera equilibrata dati statistici e riflessioni teoriche al più immediato strumento del diario di bordo, di cui il paragrafo precedente ne è un perfetto esempio. Le note di campo scritte durante la permanenza in Centro America aprono delle finestre sul panorama di Città del Guatemala, dove la criminalità ha raggiunto negli ultimi anni un tasso pericolosamente elevato.
La violenza non è mai qualcosa di isolato, ma sempre un prodotto di dinamiche storiche e strutturali. L’autore si pone fin da subito un obiettivo ben preciso: descrivere le lotte tra gang giovanili nelle zone periferiche della città evitando di cadere in facili stereotipi. Per farlo, risale al conflitto armato interno (durato ben 36 anni e conclusosi nel ’96, un conflitto che ha lasciato dietro di sé più di 200.000 desaparecidos). Tra le conseguenze della guerra civile c’è anche il processo di formazione degli asentamientos, quartieri periferici più poveri, abbandonati volutamente dalle istituzioni e dove la criminalità tra bande regna incontrollata.
Scopriamo così che la Pandilla 18 e la Mara Salvatrucha, le due principali gang guatemalteche rivali, arrivano in realtà dagli Stati Uniti. Trovano il loro fuoco originario nella violenza dei sobborghi di Los Angeles negli anni ’60 e ’80 e poi vengono rimpatriate dalla fine degli anni ’80 per mano del Servizio di Immigrazione statunitense. Grassi allaccia l’analisi storica anche ad una riflessione linguistica: parlare di mara, o di pandilla, equivale a non indicare mai un gruppo preciso. La pandilla è “molte sfere”, include il ragazzino di 13 anni che vive nel barrio e porta con sé una pistola e il pandillero di livello più alto che ha contatti con le mafie.
Per capire i motivi che spingono all’affiliazione alla pandilla evitando le generalizzazioni, le interviste raccolte dall’autore sul campo fanno da guida. Facciamo così la conoscenza di Teresa e Paulo, due ragazzi che si erano avvicinati ad una delle bande criminali perché ne subivano il fascino e compensava il loro desiderio giovanile di trasgressione. Diego e Alberto, invece, ex membri di due bande diverse, giustificano la violenza verso le gang rivali con la necessità di difesa del gruppo e del senso di appartenenza. Alle ragioni personali si aggiungono poi l’estrema povertà, la corruzione e l’isolamento dei quartieri di periferia da parte dello Stato.
Le strategie risolutive messe in atto dall’alto sono controproducenti. Le politiche di “Tolleranza zero” e le incarcerazioni massive da parte dei governanti non fanno altro che fomentare ondate di panico indirizzate per lo più contro minoranze. Il carcere diventa il luogo per eccellenza dove far “sparire” un ampio numero di disoccupati, non c’è rieducazione né riabilitazione; anzi, il carcere in epoca neoliberale “immobilizza strati di popolazione già marginalizzata”.
Dal barrio al carcere, Grassi ci conduce in un ultimo luogo esemplificativo e che è diventato negli ultimi anni parte del panorama urbano di Città del Guatemala, la gated community. La nascita di queste comunità fortificate nasce dalla paura prima delle élite urbane, poi anche della middle class. La creazione di abitazioni private recintate e protette da mura di cinta, filo spinato, telecamere a vista e guardie di sicurezza contribuisce a generare un’architettura “neomilitarista”, creando confini netti, disuguaglianze e separazioni tra classi sociali.
Dopo aver vissuto mesi dentro ad uno dei quartieri più pericolosi della Capitale, Grassi sviscera le dinamiche della violenza e risale alle cause reali del fenomeno: sono sempre gli interessi politici ed economici dello Stato a fomentare la paura verso le bande criminali, con conseguente ghettizzazione degli strati più poveri della popolazione guatemalteca. La “separazione sociale” va a braccetto con la costruzione di un apparato statale che si basa solo sulla logica della punizione e non ha nessuna intenzione di dialogare per trovare un punto di incontro. La periferia guatemalteca descritta da Grassi assume così le sembianze di un limbo, un luogo di confini incerti dove regnano insicurezza, violenza e povertà, uno strato da cui è difficile riemergere, dove a farne le conseguenze sono sempre le minoranze e i più giovani.