Teorie contro la civilizzazione per andare oltre il capitalismo

A forza di dire che il mondo stava per esplodere, ci siamo ritrovati davvero a pochi passi dalla fine.
Crisi energetica, scarsità dei materiali, una pandemia la cui coda lunga mette in ginocchio il welfare state, una guerra alle porte dell’Europa che coinvolge decine e decine di attori in tutto il mondo. Un pianeta che sembra essere stufo dell’Antropocene, quella era geologica che ha visto l’homo sapiens prevalere sulla natura per farne il giardino in cui espletare i suoi sporchi comodi.
È un effetto domino. La tempesta perfetta, il cigno nero.
Sociologi, scienziati, guru, imbonitori hanno tirato fuori teorie, profezie, soluzioni. Eppure, arrivati a questo punto, soltanto una sembra essere la strada per portare la pellaccia a casa: ridiscutere i paradigmi del capitalismo e trasformare immediatamente ogni discussione in azione, ogni timore in atto pratico.
In Civiltà della distruzione, miscellanea di saggi edita dalla casa editrice indipendente BePress, qualche possibile soluzione viene fuori.
Una serie di pensatori presi tra giornalisti, filosofi anarchici e teorici dell’ecologia sociale riflettono attorno al principio di civiltà per proporre una serie di teorie contro la civilizzazione.
E se non dovessimo pagare le bollette?
L’anarchico John Zerzan propone di distruggere l’economia così come la conosciamo oggi poiché del resto essa è solamente la risposta che tentiamo di dare a un problema che ci siamo autoimposti.
Lavoriamo per ottenere denaro che poi andrà speso per sopravvivere.
«E se non avessimo bollette da pagare?» si chiede a un certo punto Zerzan.
Il sistema in cui siamo immersi ci appare come l’unico possibile, ma ciò non dovrebbe affatto essere un fatto dato per assodato: «Non ci interessa mettere in discussione l’intera desiderabilità dell’industria e del commercio incuranti del nostro odio verso i capi, della nostra tristezza, allorché siamo testimoni della conversione degli spazi aperti in quartieri residenziali, della nostra solitudine quando siamo isolati in casa senza niente di meglio da fare che guardare la televisione, oppure dei nostri disturbi fisici e mentali contratti come risultato».

In questo breve passaggio, Zerzan sembra volersi unire al pensiero di almeno altri tre grandi intellettuali del nostro tempo: David Foster Wallace, Mark Fisher e Noreena Hertz.
Dello scrittore americano, Zerzan sembra riprendere la critica al sistema mediatico che ci immerge in un liquido di cui non sappiamo nemmeno più percepire la consistenza. Come per la famosa parabola wallaciana, anche gli esseri umani sono pesci rossi non più in grado di immaginare una realtà diversa da quella in cui nuotano.
Di Fisher, invece, Zerzan sembra condividere quei passaggi di Realismo Capitalista in cui il docente inglese denunciava l’atteggiamento tipico della società post-fordista di isolare le singole individualità, renderle fragili ed isolate: uccidere ogni tipo di assistenzialismo di stato per generare cittadini soli, corruttibili e manipolabili.
Idea che fa il paio con ciò che Noreena Hertz racconta nel suo Il secolo della solitudine, in cui, come per Zerzan, l’io frammentato sembra non essere più in grado di organizzarsi in spazi sociali comuni.
Tecnoluddismo
L’anima di Civiltà della distruzione sta però in un saggio di Bill Joy dal titolo Perché il futuro non ha bisogno di noi.
In questo scritto, l’informatico statunitense co-fondatore di Solaris ci mette davanti all’ipotesi che il mondo possa essere definitivamente governato dalle macchine.
Le prospettive allora diventano due. Nel primo caso il lavoro umano verrebbe totalmente sostituito da macchine e intelligenze artificiali in possesso delle élite. Ciò allora renderebbe le masse totalmente svincolate da dipendenze salariali. La conseguenza? L’aumento vertiginoso della distanza tra élite e massa o, per dirla con termini novecenteschi, tra padrone e operaio.

Bill Joy ai temi della Sun Microsystems
La seconda opzione è che i robot possano definitivamente succedersi alle persone fisiche, decretando di fatto la fine del genere umano.
Verrebbe allora di recuperare il pensiero di Walter Benjamin, se non altro per affrontare il futuro con un filo di luce e maggior consapevolezza.
Ne L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, il filosofo tedesco si dimostrava aperto nei confronti del progresso. Rileggendo i suoi scritti si evince che l’errore dei comunisti tedeschi durante la Repubblica di Weimar fu quello di criticare il fordismo e il taylorismo per l’utilizzo degli strumenti tecnologici messi a disposizione, pensando erroneamente che gli stessi strumenti che avevano servito il capitalismo potessero essere gli stessi che avrebbero servito il socialismo.
Forse allora converrebbe ripartire da questo errore prospettico e, come per Benjamin, appurare che l’unica via di salvezza del genere umano risiede nella produzione intellettuale. Solo il pensiero potrà distinguerci dall’algoritmo, soltanto la fecondità della poesia saprà imporsi sul razionalismo dei linguaggi di codice. Soltanto allora vincerà la vita.