Scrivere un manifesto oggi non solo è obsoleto e abbastanza ridicolo, ma se questo è addirittura preso sul serio la cosa può persino apparire quanto mai terrificante. Questo perché ogni manifesto ha in sé, in forma più o meno latente, la pretesa di totalità. Una totalità stringente, asettica, asfissiante, programmatica, unica incarnatrice dello zeitgeist, della verità, della giustizia, del pensiero, parole che abbiamo troppo a cuore per lasciarle amputare da un’aggressione concettuale che trova in una presunta mitologica purezza l’essenza stessa del proprio abominio.

2duerighe è una testata di approfondimento pluralista e indipendente:

il nostro obiettivo è quello di proporre ai nostri lettori informazioni con il più alto grado di lealtà, consapevoli sin dall’inizio che l’obiettività è solo un mito, un modello ideale a cui tendere mai raggiungibile nei fatti.

La nostra indipendenza, la libertà di cui ci facciamo portatori e che estendiamo ai nostri collaboratori, i quali non hanno traiettorie politiche o culturali da seguire in senso forte, non si traduce in uno sterile “dico quello che penso” ma in un’autoriflessione sul proprio modus operandi, un’autocritica e una vigilanza costante sul proprio punto di vista, sapendo sin dalla genesi la natura orientata di ogni postura intellettuale.

Non si può rimuovere il punto di vista, è arrogante solo pensarlo, tuttavia si può fare in modo che questo non diventi l’unica visione del mondo possibile e soprattutto che non diventi un’essenza che naturalizza la cultura impedendo ogni forma di dialogo. Il rispetto dell’altro, delle posizioni differenti, delle diverse sensibilità, diventano un imperativo metodologico che garantisce un corretto rapporto con la notizia e una convivenza feconda tra varie posizioni; ovviamente se tutto si riducesse a questo la nostra linea si trasformerebbe solo in uno sterile appiattimento della differenza stessa, c’è bisogno che queste differenze si incontrino e si riproducano in un’unità qualitativa che deve crescere sempre.

Il regime comunicativo è la cifra dell’epoca in cui ci troviamo a operare e il giornalista contemporaneo non può che confrontarsi con questa realtà. Noi crediamo che la comunicazione possa aiutare l’informazione rendendola accessibile e permeabile non solo agli addetti ai lavori, tuttavia quando la comunicazione eccede e si risolve in se stessa allora succedono dei pasticci, dissolvendo sia l’informazione che il reale in senso esteso.

L’informazione deve sempre prevalere sulla comunicazione, quando questo non accade il giornalismo si trasforma in bassa letteratura e la notizia in romanzo d’intrattenimento. Preferiamo stimolare la ragione che eccitare gli animi e anche se sappiamo che è proprio l’emozione il motore del consumo, preferiamo aprirci a soluzioni che produrre indignati, intendendo la conoscenza come pratica di liberazione, come un grande esorcismo laico per il quale vale la pena scommettere.

La mentalità “democratica” in cui crediamo e che apre alla differenza senza tentare di risolverla si struttura e corporifica sull’unità della ragione e non sulla naturalizzazione delle differenze stesse. Cultura e identità non sono essenze che cadono sull’uomo come un destino ineluttabile, non sono sovra determinazioni biologiche irriducibili, ma realtà aperte e negoziabili, possibili sulla base dell’unità della natura umana e pertanto soluzioni soppressive o esclusive dell’altro sono solo la faccia oscura di una medaglia che sostituisce all’autocoscienza, l’autogiustificazione, al dialogo il dominio o l’elisione.

Tra il dire e il fare in questo caso non c’è di mezzo solo il mare, ma costellazioni e universi, tuttavia seppur distanti gli obiettivi una volta chiariti possono trasformarsi in un grande magnete capace non di determinare, ma di orientare l’agire e l’operare professionale. Un metodo che opera su larga scala e che può trasformarsi all’occorrenza in misura d’analisi e occasione di riflessione.