Il matrimonio nell’antica Roma

Contrariamente alle abitudini greche, per i Romani il periodo migliore per i matrimoni coincideva con l’inizio dell’estate: la seconda metà di giugno era il periodo più adatto. Nel rigido modo di concepire il calendario romano, maggio era un mese completamente nefasto, come lo erano le idi, lee calendae e i dies nefasti.
A Roma il matrimonio era strettamente legato al diritto e in quanto istituto civilmente riconosciuto faceva riferimento a tutta una serie di leggi ad hoc. Lo ius connubi, la capacità di contrarre matrimonio, inizialmente era destinato solo ad individui della stessa classe sociale. Una delle prime fu la Lex Canuleia, del 445 a.C., la prima a ritenere valido il matrimonio fra patrizi e plebei. Solo sotto Caracalla tale diritto fu esteso in tutto l’Impero. Prima del matrimonio era necessario lo sponsalia, ovvero un periodo di fidanzamento che iniziava quando i due padri procedevano con la rettifica della promessa di matrimonio. Potevano essere quattro le modalità per contrarre il matrimonio.
La Confaerratio era un rito di carattere religioso; si caratterizzava nell’offerta da parte dei due sposi di una focaccia di farro alla presenza del pontefice massimo del flamen diale, ovvero i sacerdoti di Giove, e a quella di dieci cittadini nel ruolo di testimoni.
La Coemptio, era un il rito di carattere più civile che religioso e prevedeva una vera e propria simulazione di una compravendita, dove la moglie era la merce e il marito l’acquirente.
L’unione che veniva definito Usus era la consuetudine secondo la quale se i due avessero convissuto per un periodo pari ad un anno essi potevano essere considerati marito e moglie.
Infine esisteva il matrimonio Sine manu, era l’unione fondata sul maritalis affectio, ovvero la donna rimaneva pienamente sotto la patria podestà del padre anche avendo contratto matrimonio al fine di poter eraditare i suoi beni.
Scelta la data, gli sposi quel giorno dovevano eseguire tutta una serie di gesti e riti.
La sposa il giorno delle nozze deponeva la toga praetexta, la toga orlata di color porpora e la offriva in dono alla Fortuna virginalis, una divinità connessa alle giovani spose di cui era protettrice. Per l’occasione indossava un sontuoso abito carico di segni: una lunga tunica bianca, la tunica recta,lunga fino ai piedi circondata all’altezza della vita da una cintura chiusa da un nodo. Il marito la prima notte di nozze la avrebbe sciolta. Il viso della sposa era avvolto da un velo, di un vivace color arancione detto flammeum, che impediva che fosse visto. Il termine nozze proviene dal verbo latino nubere, verbo che significa contrarre matrimonio, ma con riferimento alla donna, ha un’etimologia più profonda legata al significato di celare.
In questo giorno di festa gli sposi alla presenza dei testimoni, dei parenti e degli amici, dopo aver sacrificato agli dei, pronunciavano la formula rituale del matrimonio e sottoscrivevano il contratto vero e proprio, detto tabulae nuptiales. A suggello della cerimonia la pronuba, la madrina congiungeva le loro mani, in segno di reciproca fedeltà.
I festeggiamenti avevano allora inizio, con un ricco banchetto, la cena nuptialis, alla fine del quale la sposa veniva condotta con una cerimonia simile al corteo nuziale greco, fino alla casa dello sposo. Giunti presso la soglia della dimora lo sposo prendeva in braccio la moglie conducendola all’interno e passando sopra una pecora distesa sul pavimento dell’atrio. I presenti intonavano canti al dio Talassio, divinità protettrice delle unioni matrimoniali. Una volta dentro casa lo sposo chiedeva alla sposa quale fosse il suo nome e come prevedeva il rito essa rispondeva “ubi tu Caius ego Caia” a sottolineare come ormai i loro destini fossero uniti per sempre.
Valeria Vaticano
11 dicembre 2012