Mare Faber e la ricerca perfetta

C’è stato un periodo nel quale fare musica significava davvero fare ricerca, quando arrivare davanti al microfono e registrare il disco era davvero uno degli ultimi step di un processo e di un cammino tortuoso.
Si faceva musica davvero per passione, non esistevano social o piattaforme per mettersi in mostra, esistevano palchi di locali in città per farsi conoscere, i dischi d’oro arrivavano dopo un tempo lungo del pezzo in radio o di vendite di copie fisiche e non la somma di streaming.
Il pubblico iniziale, in fase di costruzione fanbase, era composto principalmente da amici, parenti, frequentatori di un piccolo locale di periferia magari e non bot dall’altra parte dell’emisfero.
Un disco, qualora valido, durava nel tempo, la scalata alle classifiche era lenta ma organica, l’algoritmo non era minimamente contemplato e si faceva musica, nella maggior parte dei casi, per vera necessità artistica.
Ad oggi l’industria musicale sforna dischi in maniera “usa e getta”, ore ed ore in studio per un disco che se si è fortunati dura qualche mese, qualche settimana in qualche playlist editoriale, un tour stagionale e poi… sotto con l’ennesimo nuovo artista.
Ad oggi quello manca è la vera e propria ricerca dell’originalità, il mercato va veloce e copiare, imitare musica altrui è l’unico modo per stare al passo dell’industria musicale, per resistere ma i risultati sono assai discutibili.
L’arte musicale si appiattisce, tanti artisti resistono, pochi Esistono.
Guido Festinese, nel suo Mare Faber Le storie di Crêuza de mä edito per Galata, si immerge completamente nell’undicesimo disco del genio Fabrizio De Andrè.
L’opera è sicuramente una chicca per gli amanti di Faber ma risulta essere anche un’ottima lente di lettura per la musica odierna e le sue lacune.
Duplice uso, la storia di un disco ed un manuale per addetti ai lavori.
Nelle quasi centocinquanta pagine, tra le testimonianze di Mauro Pagani e le riflessioni/interviste dello stesso De Andrè, il lettore intraprende un viaggio tra le culture mediterranee generatrici di Crêuza de mä, aneddoti di lingua e vita genovese condite dal sottofondo musicale del bouzouki.
Pagani e Faber, Antiaccademici, lontani dai dettami musicali ed attenti ricercatori della bellezza fuori gli schemi, quella ricerca che non ha guardato all’America tanto in voga ma alle radici di casa di casa propria: Genova.
L’impresa di far diventare il Mediterraneo “nostro” l’America degli altri, a Pagani e Faber è riuscita; il disco è un mix culturale tra Corto Maltese e Ulisse, un prodotto che proverà poi negli anni ad essere in qualche modo replicato ma si conserverà per sempre unico nel suo genere.
Festinese ci rende partecipi del processo di ricerca, costruzione e riuscita del disco nei minimi particolari, la lingua ad esempio.
Una delle idee originali di De Andrè era quella di scrivere e cantare in arabo, la cosa non andò in porto, presero piede le idee del sardo e dell’occitano, alla fine vinse e convinse il genovese, il dialetto usato tra via Piave e via Trieste, lo stesso delle risse al Bar Zanzibar.
Il genovese, la meno neolatina delle lingue neolatine.
Il genovese, il dialetto con duemilacinquecento vocaboli di importazione araba.
La ricerca è nei particolari non solo musicali ma anche visivi, basti pensare alla copertina del disco.
Seppur Crêuza de mä sia un disco “marinaio” vengono evitate immagini stereotipate come pescatori o barche ma viene usata l’immagine di una casa.
Non una casa qualsiasi ma una parete che può essere collocata in un qualsiasi paese che affaccia sul mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia, e paradossalmente è la parte più marinaia che c’è poiché “i marinai vivono in mare ma hanno una voglia porca di terra”.
Il disco uscì nel 1984 anche se i lavori di ricerca e maniacale perfezionamento effettivamente iniziarono nel 1982 ed i risultati strepitosi arrivarono fino all’altra parte del pianeta, nel 1992 David Bryne (fondatore dei Talking Heads) annoverò Crêuza de mä come uno dei dischi preferiti del secolo scorso.
Crêuza de mä, per tanti versi, sfidò con coraggio le allora leggi del mercato ma a De Andrè probabilmente del mercato importava relativamente, puntava all’essere e non alle classifiche
“Un disco per bambini innamorati come lo siamo noi…ci saranno altri bambini lì fuori”
Pagani, a trent’anni dall’uscita del disco, ammette che insieme a De Andrè furono “dei piccoli Salgari” e ascoltando ancora oggi le tracce dell’album si ha effettivamente l’impressione di viaggiare da fermi.