Quando il jazz è donna. Intervista a Filomena Campus
Musica
30 Novembre 2021

Quando il jazz è donna. Intervista a Filomena Campus

Parte dal Regno Unito una delle più interessanti coniugazioni del jazz contemporaneo. Un genere che di colpo diventa urban, abbandona i piani alti dell'establishment e lascia alle donne il ruolo di mattatrici. Ne abbiamo parlato con la musicista di origini sarde Filomena Campus, subito dopo la sua performance al London Jazz Festival.

di Manuela Travaglini

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Londra è una di quelle città in cui prima o poi ci si ritrova a parlare di radici. Come se il meltin’ pot culturale in cui diverse etnie si incontrano, allo stesso tempo accrescesse lo scambio tra le persone e ne marcasse le differenze, in un lavoro continuo di contaminazione e ridefinizione assieme.
Di radici e consapevolezze ci siamo ritrovati a parlare con Filomena Campus, jazzista d’anima sarda, londinese di adozione e fondatrice del Theatralia Jazz Festival. La incontriamo subito dopo la sua partecipazione al London Jazz Festival e, come sempre accade con chi fa del proprio mestiere una missione, subito gli assoli vengono meno e la musica fa da sottofondo a una conversazione su Franca Rame, jazz britannico e diritti civili.

Questo è un anno importante per te, almeno dal punto di vista della carriera artistica, poiché saranno passati vent’anni da quando hai lasciato la Sardegna per trasferirti a Londra nel 2001. Quale modo migliore, se non fare ritorno al London Jazz Festival appena concluso. Puoi fare un bilancio dei tuoi primi vent’anni da Jazzista – italiana e donna – a Londra?

Sono stati venti anni intensi, fertili di progetti musicali e teatrali, oltre al lavoro accademico che accompagna ed è sempre in funzione di quello artistico. È stato bellissimo tornare sul palco dopo quasi due anni di silenzio, causa pandemia, per un concerto sold out con il mio quartetto con Steve Lodder al piano, Rod Youngs alla batteria e Charlie Pyne al contrabbasso. L’invito a partecipare al London Jazz Festival 2021 è stata un’occasione per ricordare progetti che hanno segnato il mio percorso artistico, dal tour nel 2002 con Orphy Robinson, al quintetto In Kimbe con il flautista e compositore Rowland Sutherland, al primo CD Jester of Jazz con il mio quartetto, ai progetti di jazz/teatro insieme a Stefano Benni, come Monk Misterioso e Italy VS England. Un bilancio decisamente positivo, anche se dopo la Brexit per noi europei rimasti a Londra è rimasto un senso di delusione profonda che è difficile rimarginare. Ma ancora oggi credo che non avrei mai potuto realizzare quello che ho fatto in questi venti anni se fossi rimasta in Italia. E l’amore per Londra è sempre presente, come ho precisato in un nuovo brano con il  quartetto, Unsettled, scritto sulla musica di Steve Lodder, proprio dedicato alla mia città: «I’m not going to give up on you». 

Hai fatto tournée e collaborato con i migliori artisti jazz nazionali ed internazionali. Hai anche collaborato con famosi scrittori italiani, Stefano Benni e Simonetta Agnello Hornby tra gli altri. Pensi che le collaborazioni siano un arricchimento? I tuoi spettacoli non sono solo intrattenimento, e queste collaborazioni lo dimostrano: c’è sempre un messaggio, una causa da supportare, intrisa nei tuoi spettacoli. Quanto è importante il ruolo sociale di un artista, secondo te?

Il ruolo sociale, civile, e politico sono essenziali nell’arte.  Questo non significa fare ‘politica’, ma, come diceva Franca Rame, un teatro o un’espressione artistica che non parlino della realtà che ci sta intorno non hanno senso. Io non credo nel teatro o nella musica solo come intrattenimento o come riproduzione di un testo o di un brano fossilizzato nel passato come un pezzo da museo, che non si può modificare, ma solo riprodurre. Forse per questo ho scelto il jazz, infatti non suoniamo mai un brano nello stesso modo, e l’improvvisazione ci spinge a confrontarci con il presente, interagendo e creando con chi condivide con noi il palco, e con il pubblico presente. Proprio come faceva anche Rame con il suo teatro. La collaborazione fa parte di questo modo di intendere il mio lavoro. È un arricchimento che spinge a migliorarsi, a confrontarsi con idee e stili diversi, come è stato il lavoro con Stefano  e con Simonetta. Credo che oggi più che mai sia importante ritrovare nell’arte un modo per condividere un momento di magia con il pubblico, in cui, magari attraverso l’ironia, la musica, la poesia, la creatività, si affrontano anche temi che riguardano tutti. La collaborazione nella musica poi è qualcosa che ricerco in continuazione. Adoro creare progetti in cui suonano insieme musicisti che magari non si conoscono, come ho fatto per anni con il mio Theatralia Jazz festival, organizzando concerti sia a Londra che in Italia, invitando musiciste e musicisti dei due miei paesi a creare insieme progetti originali. 

(Foto di Daniela Zedda)

Nel 2020 hai iniziato un dottorato di ricerca alla Royal Central School of Speech and Drama focalzzato sulla tua amica nonché artista di fama internazionale Franca Rame, oggi ricordata soprattutto come la compagna del premio Nobel per il teatro Dario Fo. Nel tuo progetto jazz-teatrale, To Be Franca, la musica è intervallata da parole recitate, improvvisazioni vocali e sketch comici tra Rame e Fo. Come è nata l’idea di questo show/tributo? Hai ricevuto manifestazioni di interesse per presentarlo anche in Italia? 

Franca è sempre stata ‘presente’ nei miei concerti. Con Steve Lodder abbiamo scritto diversi brani dedicati a lei, due ispirati alla poesia che Benni ha scritto per il settantesimo compleanno di Franca, e che abbiamo recitato tante volte insieme. Lo scorso anno ho fatto domanda al LAHP (London Arts and Humanities Partenrship) e ho vinto una scholarship per un dottorato di ricerca alla Royal Central School of Speech and Drama su Franca Rame.  Non credo nel lavoro di pura accademia e sto lavorando a un progetto che faccia rivivere il teatro di Franca e lo porti a chi ama o studia teatro, alla gente, non solo agli accademici. L’idea iniziale è proprio quella di smettere di ricordare Franca come ‘la moglie di’, e dimostrare, attraverso la ricerca e la pratica, che il lavoro di Franca Rame e Dario Fo era un progetto di collaborazione in cui la fusione dei loro talenti ha creato un teatro unico che oggi è ancora vivo e importante. Un teatro che non va solo ricordato o celebrato, ma fatto rivivere anche per farlo conoscere alle nuove generazioni, perché’ è un teatro che parla ancora della realtà un cui viviamo, e che ci può aiutare a prendere coscienza dei problemi e magari agire per cambiare quello che non va. To be Franca è un progetto/work in progress, nel senso che, prendendo esempio da Franca, modifico il copione/canovaccio (che è in gran parte improvvisato), a seconda dei feedback del pubblico durante e dopo lo spettacolo. Abbiamo arrangiato diversi brani musicali del repertorio Fo/Rame e composto nuove canzoni con Steve Lodder. Inoltre, con il supporto della Fondazione Fo Rame e del Musalab Archivio Rame Fo, ho adattato e tradotto una lettera autobiografica di Franca, insieme a due brevi estratti dai suoi monologhi comici sulla condizione femminile, un tema che mi sta a cuore. Il pubblico è impazzito alla prima londinese lo scorso ottobre. Ci sono già diverse manifestazioni di interesse, soprattutto all’estero, in Brasile, Danimarca, e anche in Medio Oriente. Ad esempio, farò un workshop sul teatro di Franca in una scuola di teatro a Muscat, in Oman, in occasione della Giornata internazionale della donna. Mentre a dicembre parteciperò a una conferenza sulla famiglia Rame (Franca era nata in una famiglia di attori viaggianti con radici nella Commedia dell’Arte), organizzata dall’università di Verona insieme alla Fondazione Fo Rame. Ho la sensazione che Franca sia valorizzata e studiata come artista più all’estero che in Italia. Forse la censura e certi pregiudizi nei suoi confronti hanno marginalizzato la sua figura, soprattutto ora che ci ha lasciato e rischia di essere dimenticata o posizionata, anche negli scritti accademici e di critica teatrale, come diceva lei ironicamente, come ‘il piedistallo del monumento’. Ecco, la mia ricerca vuole cancellare questa definizione e mettere Franca sul piedistallo che si merita. 

Torniamo a Londra. Se dovessimo pensare ai dischi che hanno definitivamente stravolto la scena jazz londinese, sarebbe doveroso citarne almeno due: la compilation We Out Here, che nel 2018 ha messo insieme alcuni tra gli artisti più interessanti del momento, e Your Queen is a Reptile dei Sons of Kemet.
In Your Queen is a Reptile, il frontman dei Sons of Kemet immagina una nuova famiglia reale composta da storiche attiviste come Ada Eastman, Angela Davis e Harriet Andersson.   
Come vedi questa svolta al femminile, sia da un punto di vista musicale che evidentemente politico e socio-culturale?
 

Da alcuni anni ho fatto mia la causa femminista. La ricerca accademica mi ha aiutato a capire in profondità il senso di questo termine, che ora sento di poter usare con consapevolezza. Un termine tanto screditato, soprattutto in Italia, che invece è fondamentale per la crescita sociale e culturale di tutti, donne e uomini. Un libro che mi ha aiutato a capire cosa significhi essere femministe oggi, per esempio, e’ Living a feminist life di Sara Ahmed, in cui l’autrice spiega la sua definizione di feminist killjoy, la femminista guastafeste. Infatti, una volta che si aprono gli occhi sul sistema patriarcale, non c’è scampo. Diventiamo inevitabilmente femministe guastafeste, nel senso che non riusciamo più ad abbozzare o lasciar perdere. Nell’ambiente jazz alcuni anni fa molte di noi ‘donne del jazz’ inglese abbiamo iniziato a lamentarci del fatto che nei cartelloni dei festival e dei concerti c’era una maggioranza assoluta di maschi, per non parlare della nostra presenza nei media, nella stampa jazz, nei premi. Una situazione imbarazzante e inaccettabile. Siamo diventate ‘vocal’, insomma ci siamo fatte sentire e alcune colleghe sono state bravissime nella loro lotta. Negli ultimi anni la situazione ha decisamente iniziato a cambiare direzione, e nel London Jazz festival 2021 c’è stata una presenza femminile e multiculturale importante. Io stessa ho voluto una bassista donna nel quartetto, perché da vent’anni mi rendo conto che lavoro quasi sempre con musicisti uomini. Non credo nelle quote, ma credo nel merito e nel valore. Progetti come We out here e Sons of Kemet poi portano una ventata di sonorità e contenuti innovativi, che attirano moltissimi giovani. Ho lavorato anni fa brevemente sia con Shabaka Hutchings (leader dei Sons of Kemet) che Nubya Garcia, erano giovanissimi, ed e’ stato un piacere vederli crescere e affermarsi a livello internazionale. E hanno un’energia strepitosa sul palco. 

Il 2019 ha visto la nascita di Women In Jazz, una nuova organizzazione fondata da Louise Paley e Nina Fine per promuovere le musiciste di jazz come esecutrici, produttrici di festival e manager oltre ad altri ruoli professionali. Cosa pensi di questa organizzazione? Ne fai parte?

Come accennavo prima non credo nelle quote, ma nel valore e nel merito artistico, anche se capisco in certe circostanze, come in politica, a volte sia l’unico modo per dare voce alla metà della popolazione che altrimenti resterebbe ai margini. In questo senso credo che Women in Jazz Media stia facendo un ottimo lavoro. Allo stesso tempo ho avuto una strana esperienza, mentre promuovevo il mio concerto per il London Jazz Festival ho mandato la pubblicità a una associazione inglese di donne nel jazz, e mi è stato fatto notare che nella mia band ci sono anche maschi, per cui non avrebbero fatto promozione. Non mi ritengo una femminista talebana e non credo assolutamente che creare delle realtà o gruppi solo femminili sia la risposta alla discriminazione di genere. Bisogna fare attenzione a non creare realtà che si auto-marginalizzano e che non aiutano la causa. 

Un altro aspetto interessante è che attraverso il filtro “urban”, e penso ad esempio ai Tomorrow’s Warriors, il nu jazz britannico non viene percepito più come d’élite ma anzi si mescola a generi diversi, come il rap e il  grime – un nome su tutti, gli Ezra Collective. Questa conversione concettuale avverrà anche in Italia?

Parlavo dei Tomorrow’s Warriors proprio la scorsa settimana nella mia intervista a Margaret Busby (la prima publisher nera e donna in UK, scrittrice e giornalista, che ha anche firmato i testi di alcuni classici del jazz, come Sometime Ago), nel mio programma radio London One Jazz. Margaret fa parte del board dei Tomorrow’s Warriors, che al festival hanno festeggiato trent’anni di attività. È una associazione che offre a giovani musiciste/i di talento la possibilità di studiare e crescere artisticamente con la guida dei grandi jazzisti. È diretta da Gary Crosby, bassista jazz che faceva parte dei leggendari Jazz Warriors, insieme per esempio a Orphy Robinson, Cleveland Watkiss, Rowland Sutherland e altri grandi con cui ho la avuto la fortuna di lavorare e che hanno aiutato tantissimo anche me, soprattutto nei miei primi anni londinesi, a crescere come musicista. E sono diventati come una famiglia. Parliamo di musicisti con una cultura musicale immensa, legata anche alle radici culturali di chi magari è nato in UK e ha origini in altri continenti. Credo nel jazz si possano esplorare le proprie radici, qualunque esse siano, mentre resto perplessa quando si cerca di imitare linguaggi che, da italiani, non ci appartengono, come il rap o il grime. Gli Ezra funzionano perché sono autentici. Uno dei motivi per cui amo fare jazz a Londra è che si può lavorare con musicisti di ogni cultura e background, e che ognuno suona con il proprio accento, il proprio suono, come io porto il mio, le mie radici italiane e sarde, creando così scambi e linguaggi inaspettati, stimolanti. Spero quindi in una conversione concettuale inclusiva, innovativa, coraggiosa, in Italia, fondata su radici e motivi autentici senza bisogno di appropriazione di culture o accenti altrui. Immagino esista già. 

Che situazione c’è oggi in Italia, per le giovani musiciste che vogliono avvicinarsi al jazz?  

In Italia c’è un grande amore per il jazz, basta contare i festival in tutto il paese. Peccato che il jazz non venga rappresentato nei media a parte rare eccezioni, e che non venga insegnato nelle scuole, anche se ora ci sono associazioni di musicisti jazz come MIDJ che lavorano tantissimo per portare il jazz nelle scuole. Vivendo a Londra da venti anni non posso valutare con chiarezza quale sia la situazione in Italia. Posso solo dire che mi dispiace vedere quasi sempre nomi di musicisti uomini nei programmi dei festival, a volte spudoratamente senza neanche una donna, per cui credo ci sia moltissimo da fare in questo senso e credo questo rappresenti il primo passo necessario verso un progetto di innovazione che possa coinvolgere molto di più anche le nuove generazioni.  Se non ci sono esempi di donne musiciste e strumentiste, sarà difficile che una bambina si avvicini al jazz. C’è bisogno di modelli, e nonostante ci siano bravissime musiciste jazz in Italia, non sono rappresentate come dovrebbero. Spero che il cambiamento a cui stiamo assistendo a Londra (Brexit a parte!) contagi presto anche l’Italia. Questo sarebbe un virus benvenuto.