I colpi di Stato nelle democrazie moderne

All’alba del terzo giorno seguente la convalida dell’arresto di Imamoglu, sindaco di Istanbul, e ad una settimana dalla sua custodia, la Turchia intera è ancora in fermento, con una forza motrice che al grido di giustizia sta facendo risuonare il proprio eco ben oltre i confini nazionali. Basti qui volgere lo sguardo, ad esempio, a Messina, dove la comunità turca ha organizzato una campagna di sensibilizzazione per una Turchia realmente democratica. Migliaia i sostenitori del principale rivale -politico- di Erdogan, che da una settimana imperversano nelle piazze di tutto il Paese, con particolare attenzione ad Ankara, Smirne e ovviamente Istanbul, blindate da istituzionali cordoni di polizia e da un divieto di manifestare che è stato esteso fino al primo aprile. Trema allora il presidente turco, davanti ad un popolo ben più vivo di quanto non fosse rappresentato dalle testate internazionali. La situazione è delicatissima, si parla di “colpo di Stato”, come gli esponenti del Chp -primo partito d’opposizione- non hanno mancato di sottolineare. Quanto sinora accaduto non ha comunque impedito ad Imamoglu di vincere le primarie svoltesi domenica, con il sostegno di circa 15 milioni di preferenze, a fronte dell’1,5 milioni di iscritti al partito. Questo mostra l’anima di un popolo che ha lasciato alle proprie spalle il servilismo e la paura verso un potere tiranno, per ricoprire un ruolo da legittimo protagonista nella trama delle democrazie moderne. E allora l’era di Erdogan sembra incontrare uno scoglio nel popolo turco che in larga parte ripudia mezzi proibiti di lotta politica. È vero che ogni dittatura richiede una sparuta opposizione per potersi garantire lunga vita, come ci insegna Ernst Jünger nel Trattato del ribelle, ed è proprio questa opposizione che regola le sorti della stessa dittatura. Laddove il consenso sia pieno, laddove non ci sia dissenso neppure in termini formali, ecco allora che il potere perde ogni qualsivoglia legittimazione e cade su sé stesso, non potendo più fingere di credere nella democrazia del voto. Nel caso opposto, invece, quella sparuta minoranza giace silente nei tempi più freddi, stesa in un torpore dal quale è però destinata a svegliarsi. Forse non era questa la reazione immaginata dal presidente Erdogan, forte di un consenso popolare che gli ha garantito la guida del Paese dal 2014, o forse ci troviamo davanti ad una impopolare giustizia che deve necessariamente fare il proprio corso, nonostante le vere o presunte sottotrame politiche. Vero è che disordini del genere non si vedevano da decenni, e davanti a un popolo che scalpita non c’è sovrano che possa reprimere, come la storia ci ha sapientemente insegnato. Se tutto ciò è solo la trama di un diabolico gioco politico o se davvero la giustizia turca si pone in termini di indipendenza e autonomia dal governo, non ci è per ora dato saperlo, ma volendo confidare nella Giustizia, nel senso positivo e metagiuridico del termine, più che mai risuonano le parole di Ferdinando I d’Asburgo: “fiat iustitia et pereat mundus”.