La posizione dell’Egitto rispetto al piano di Trump per Gaza

“Gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia di Gaza, la possederemo”, è la nota affermazione di Trump pronunciata durante la conferenza stampa congiunta alla Casa Bianca il 4 febbraio, al fianco di Benjamin Netanyahu, su cui pende un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale.
Dopo aver affermato che, citando le sue parole, “Gaza è stato un luogo molto sfortunato per un lungo periodo”, come se le operazioni militari e i bombardamenti fossero avvenuti per caso e senza il sostegno diretto americano, il Presidente riflette sul fatto che un processo di ricostruzione non deve riguardare le persone che su questa terra hanno vissuto “un’esistenza miserabile”, ovvero i Gazawi, che
piuttosto dovrebbero lasciare quello che ormai è divenuto “un sito di demolizione” e cercare pace e tranquillità altrove.
Propone invece che siano proprio gli Stati Uniti a prendere Gaza, qualsiasi cosa questo voglia dire, e a porre le basi in quest’area per uno sviluppo economico, immaginando la Striscia come una nuova Riviera del Medio Oriente. Al suo fianco, la controparte israeliana annuisce sorridendo, definendo Trump il più grande amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca.
L’ipotizzata pulizia etnica
Soprattutto perché, secondo quanto nuovamente ribadito dal Presidente degli Stati Uniti l’11 febbraio durante la conferenza stampa tenuta con il Re della Giordania Abd Allah II, la sorte dei palestinesi sarebbe quella di lasciare la propria terra a tempo indefinito. Ovvero, secondo molte voci, la pulizia etnica.
Le sue controverse e volutamente ambigue dichiarazioni, a cui non riesce a fornire una cornice concreta e verosimile quando interrogato sui dettagli del piano di ricostruzione, sono state arricchite da un distopico video generato dall’intelligenza artificiale che Trump ha condiviso su Instagram.
Due bambini palestinesi escono per mano da una grotta, scena che richiama la narrativa sionista che presenta la Palestina come una terra deserta che fiorisce e si sviluppa solo grazie alla presenza degli insediamenti israeliani, e trovano la propria terra trasformata in una località balneare di lusso, con gigantesche statue dorate di Trump, danzatrici con la barba e versioni generate dall’IA di Elon Musk e del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu che prendono il sole.
L’Egitto e la Giordania non ci stanno
Tornando al piano, Trump sui palestinesi si limita a dire che “vivranno felicemente ed al sicuro in un’altra località… le famiglie non dovranno essere uccise e rapinate e molestate da Hamas e da chiunque altro”.
Queste altre località che dovrebbero accogliere gli oltre 2 milioni di palestinesi forzatamente dislocati e senza diritto al ritorno, di cui Trump ha ritenuto non dover ottenere il consenso e l’approvazione, sono principalmente Egitto e Giordania.
Il piano è stato rifiutato da entrambi i paesi. Le agenzie di sicurezza egiziane con l’appoggio governativo hanno organizzato delle proteste presso il valico di Rafah, un’area solitamente sottoposta a stretti controlli militari e di sicurezza. I partecipanti hanno sventolato bandiere egiziane e palestinesi ed hanno protestato contro la proposta di Trump secondo la quale l’Egitto dovrebbe accogliere i rifugiati palestinesi dislocati.
Il rifiuto del piano, che è dovuto non a motivi umanitari o manifestazioni di solidarietà verso i palestinesi di Gaza, che anzi sono prontamente criminalizzate e represse dal governo, ma piuttosto a “motivi di sicurezza interna”, non è stato accompagnato da un’aperta condanna di quello che ha tutte le caratteristiche di un trasferimento forzato, una seconda Nakba, come vorrebbe l’estrema destra israeliana al potere, e non solo.
Una mancata presa di posizione forte, che si spiega notando i miliardi di dollari che l’Egitto riceve annualmente in aiuti dagli Stati Uniti; il paese con Israele è da decenni uno dei più grandi destinatari dell’aiuto militare americano. Ciò è possibile in gran parte grazie alla normalizzazione dei rapporti del Cairo con Tel Aviv, avvenuta con gli Accordi di Camp David del 1978 fortemente mediati dagli Stati Uniti, oggi più fragili che mai.
Il tentativo di normalizzazione e la liquidazione palestinese
Per il “dittatore preferito” di Trump, come lui stesso ha definito il Presidente egiziano Al-Sisi al summit G7 nell’agosto 2019 in Francia, la questione rimane come potersi opporre a Trump ed allo stesso tempo assecondarlo, considerando la centralità della relazione strategica americano-egiziana per la sopravvivenza del regime.
Il 25 febbraio Al-Sisi ha incontrato Ammar al-Hakim, leader del Movimento per la Saggezza Nazionale dell’Iraq, ed in questa occasione oltre a chiedere la fine dell’occupazione dei territori siriani da parte dell’esercito israeliano, ha respinto nuovamente il piano per il trasferimento dei palestinesi dalla Striscia di Gaza “per evitare la liquidazione della questione palestinese”.
In realtà tale liquidazione dalla scena globale è già avvenuta, a partire dagli accordi di normalizzazione con lo stato di Israele firmati in primis dall’Egitto, poi dalla Giordania nella cornice dei negoziati di Oslo, dai paesi del Golfo con gli Accordi di Abramo ed infine da Marocco, Sudan e se non ci fosse stato il 7 ottobre molto probabilmente anche dall’Arabia Saudita.
Accordi che hanno portato ai paesi arabi firmatari grandi benefici economici, soprattutto in termini di cooperazione di tipo militare e commerciale, in cambio di pace nella regione, ovvero il riconoscimento dello Stato di Israele e la fine delle ostilità verso la presenza sionista nella regione.
Una pace non certo per i palestinesi, che hanno continuato a subire la colonizzazione e l’occupazione israeliana e che si sono ritrovati più soli nella loro lotta per l’autodeterminazione, che prima era un elemento unificatore all’interno del mondo arabo per poi divenire sopratutto dagli anni ’90 sempre più occultata e marginalizzata, in virtù di tale processo di normalizzazione.
Potrebbe sembrare che i paesi arabi ritrovino il proprio attivismo e unione sulla causa palestinese intorno al piano egiziano per la ricostruzione di Gaza, che verrà presentato il 4 marzo in occasione del summit ospitato al Cairo, e che secondo le aspettative dovrebbe dare voce e forma ad una forte ed unificata posizione araba contro la proposta di Trump di dislocamento dei palestinesi.