Il confine poroso che separa il Congo dal Ruanda
Il confine che divide il piccolo e sovraffollato Ruanda dal gigante e ricco Congo è uno di quei confini che sulle mappe delinea chiaramente l’area di esistenza e sovranità dello Stato sul territorio e sulla popolazione che vi risiede, ma che poi nella realtà è più simile ad una membrana porosa. La attraversano senza troppi ostacoli esseri umani e risorse minerarie da una parte all’altra, ed è intorno a quest’area di confine, nelle province orientali della Repubblica democratica del Congo, che da quasi 30 anni si consuma un conflitto che cambia forma e rimescola attori, ma non sembra, o non vuole, trovare una fine. E quella frontiera, come per usura, rischia di non riuscire a trattenere più nulla, e come spesso accade parlando di confini, concetto tutt’altro che lineare, ma elastico e mobile, potrebbe spostarsi e ricomporsi, anche in modo letale sui corpi delle persone.
La presenza ruandese nel Congo orientale
Alla cerimonia di consegna del Premio Nobel per la Pace tenutasi ad Oslo nel 2018, il dottore congolese Denis Mukwege, a cui è stato riconosciuto il titolo, afferma di provenire da uno dei paesi tra i più ricchi del mondo, ma con una popolazione tra le più povere.La fascia orientale del paese- Ituri, Kivu del Nord, Kivu del Sud, Katanga- è un serbatoio ricchissimo di materie prime, nella parte ruandese del confine invece non c’è quasi nulla e la terra non basta per tutti. Ma nonostante ciò, gli indicatori sociali del piccolissimo paese retto da Paul Kagame che conta 459 abitanti per chilometro quadrato, hanno raggiunto nella fase seguente alla guerra civile e al genocidio del 1994 performance positive che non hanno eguali in quell’area e nell’intero continente. Al contrario, in Congo ci sono pochissime strade asfaltate, e a separare le province orientali dalla capitale Kinshasa ci sono centinaia di chilometri di foresta equatoriale. Una lontananza che non è solo chilometrica, ma anche politica e sociale. Una ricchissima area di confine marginalizzata che sfugge al controllo del governo centrale, e per questo più vulnerabile e soggetta alle influenze esterne, sopratutto del Ruanda. Infatti tra i pochi chilometri asfaltati in Congo, alcuni sono quelli che collegano la città Congolese di Goma a Gyseni, cittadina frontaliera del Ruanda. Su questi passano ogni anno, per lo più clandestinamente, milioni di dollari di materie prime che nutrono il paese di Kagame e ne garantiscono la crescita del PIL. Si spiega così il miracolo ruandese che si avvale in buona parte delle risorse che giacciono oltre frontiera. Le ricchezze infatti non restano in Congo, dove invece arrivano uomini, più come forza lavoro prima, come profughi poi. Infatti con la vittoria del Fronte Patriottico Ruandese nell’estate del 1944, che pone fine a poco più di tre mesi di enormi massacri che fanno migliaia di morti tra i tutsi e gli hutu moderati, 1,5 milioni di hutu temendo rappresaglie attraversarono il confine di quello che prima era l’est Zaire, e tra i rifugiati c’erano moltissimi soldati Hutu estremisti e membri di milizie che erano state attive nei massacri, ancora armati. Con il pretesto di neutralizzare questi ultimi, i quali rappresentavano una minaccia per la stabilità e la sicurezza del Ruanda, Paul Kagame lanciò una serie di operazioni militari oltre frontiera con le quali mise le basi per la presenza ruandese in Congo, nella regione del Kivu, da cui non se ne andò più. Finito un genocidio, se ne fa presto un altro, in un contesto dove regna l’impunità e lontano dagli occhi distratti della comunità internazionale. Nel 1996 scoppia la Prima guerra civile in Congo che vede opporsi al regime dittatoriale di Mobutu il movimento ribelle AFDL con a capo il futuro presidente Laurent Desire Kabila, sostenuto da Ruanda e Uganda, ed in buona parte composto da truppe ruandesi. Queste furono impegnate in una vera e propria caccia all’uomo, al loro passaggio venivano presi di mira villaggi e campi rifugiati, l’obiettivo era di distruggerli con ogni mezzo, e cosi i fiumi umani di profughi hutu furono spinti ad allontanarsi dal confine più in profondità nello Zaire, attraverso le sue foreste verso l’ovest, fino a Kisangai e poi da li verso Mbandaka. L’espansione dell’AFDL nel paese era accompagnata da massacri su vasta scala di rifugiati e civili, lungo tutta la loro marcia della morte.
Instabilità ed economie di guerra vantaggiose
Il 17 maggio 1997 le truppe AFDL presero il controllo della capitale, rovesciarono il dittatore Mobutu dopo 32 anni ininterrotti al potere, e Kabila si autoproclamò presidente, cambiando il nome del paese in Repubblica democratica del Congo. Ma a dispetto di quanto il nome suggerirebbe, le elezioni venivano posticipate ed i partiti politici messi fuorilegge. Una vittoria contro un dittatore sanguinario, che però ha solide fondamenta nella violenza estrema, quella genocidiaria verso i rifugiati hutu inermi, e nell’impunità. Per legittimare se stesso e proteggere i suoi alleati da accuse, quello che avviene dopo segue sempre lo stesso copione: nascondere le tracce dei crimini commessi, che è essa stessa una negazione. Così come in un conflitto le alleanze fanno presto a cambiare, anche nel post sono veloci ad assumere forme diverse, perché velocemente cambiano gli interessi e gli equilibri in gioco. Nel 1998 inizia la seconda guerra del Congo, che vede scontrarsi i vecchi alleati in un conflitto che cambia solo forma, ma rimane lo stesso per chi lo subisce. Ad opporsi a chi poco più di un anno prima aveva vestito i panni di capo di un movimento ribelle, e che ora è presidente, è il Raggruppamento Congolese per la Democrazia, anch’esso nasce ad est, punto strategico, e guarda ad ovest, fine politico. Supportato anch’esso dal Ruanda, per la cui sopravvivenza e sviluppo le regioni congolesi orientali sono irrinunciabili; sempre le stesse truppe, che attraversano sempre lo stesso confine, solo a fianco di ribelli diversi. La frontiera continua ad essere attraversata per osmosi, come se quella linea tracciata sulle mappe potesse assolvere alla sua funzione solo idealmente, nei discorsi dei politici, lontani dal contesto reale. Il nuovo movimento ribelle, ed il suo sponsor, non si differenziò molto da quello precedente nelle modalità di azione, e di conseguenza ai civili non spettò un trattamento migliore. Bombe, stupri, saccheggio, massacri e morti da seppellire si ripetono uguale a sé stessi, e così continueranno a ripetersi, seguendo una linea che, a tratti più spessa ad altri meno marcata, arriva fino ai giorni nostri. Il Congo si trasforma in un mosaico di milizie regolari e gruppi ribelli, tutti sostenuti da paesi esteri che hanno interesse nell’accaparrarsi quanto più possibile le ricchezze del paese, e la guerra si presenta come il contesto perfetto per conseguire vantaggi economici. Si forma una resiliente e profittevole economia di guerra intorno al saccheggio e all’esportazione delle risorse della regione, che se non è la causa originaria del conflitto è certamente un elemento chiave nell’assicurarne il sostentamento. Garantire il perpetuarsi dell’instabilità per continuare a predare, nell’impunità. Sono destinate a rimanere evase, insoddisfatte, le esigenze di giustizia della popolazione che ha subito e continua a subire una guerra dove chi dovrebbe proteggerla veste i panni del carnefice, e dove chi pianifica i massacri per parte ribelle è poco dopo nominato alto comandante ed ufficiale dell’esercito governativo. Come si è detto prima, le relazioni di potere e gli interessi mutano in fretta, e mai si preoccupano della sorte dei civili. La seconda guerra del Congo, anche chiamata “Prima guerra mondiale africana” perché ha coinvolto 8 nazioni africane e circa 25 gruppi armati finanziati da lobby economiche, politiche e commerciali anche occidentali, non è mai finita nelle province orientali, nonostante l’accordo di pace dell’aprile 2003. Nessuno degli innumerevoli conflitti che ha attraversato la regione ha trovato nella Monusco, la missione per la stabilizzazione nella Repubblica democratica del Congo, un ostacolo, e nessuna delle formazioni guerrigliere che hanno tenuto in ostaggio villaggi o regioni intere è stata combattuta o limitata con successo dalla missione di peacekeeping delle Nazioni Unite. Non è successo per il “Congresso nazionale di difesa del popolo” sostenuto dal Ruanda che nel 2007 con l’obiettivo, funzionale alla legittimazione del proprio operato, di difendere i diritti dei profughi ruandesi di etnia tutsi tenne sotto la minaccia della carestia centinaia di migliaia di civili
nella regione di Goma. Non è successo in questi giorni con il gruppo ribelle M23. La loro avanzata va inserita in un quadro di profonda instabilità che fa di questa regione un teatro di conflitto, di dimensioni continentali, dove ribelli, esercito regolare, warlords, eserciti stranieri, tutti legati a network criminali inseriti in contesti regionali e globali, sfruttano indistintamente e con modalità illecite e violente le ricchezze del territorio. Come evidenziato da un team investigativo delle Nazioni Unite nel marzo 2008 e valido ancora oggi, lo sfruttamento illegale delle risorse naturali sembra arricchire piccoli gruppi di individui di ogni fazione, compresi uomini d’affari stranieri legati ai gruppi, e coloro che beneficiano da queste attività criminali potrebbero essere riluttanti a rinunciare all’opportunità di ricavare vantaggi economici e quindi potrebbero avere un interesse nel mantenimento dello status quo piuttosto che impegnarsi per una pace sostenibile e la stabilità nella regione.