Brutalizzazione e Moral bombingTra la Seconda Guerra Mondiale e la Palestina

La Seconda Guerra Mondiale rappresenta l’apice di un processo che ha messo definitivamente in crisi i contorni del progresso in un mondo ormai fuori controllo; il rapporto offuscato tra quest’ultimo e la
democrazia. Il 1945 sancisce una frattura rispetto al passato, l’affermarsi di un nuovo ordine mondiale politico e giuridico.
La nascita delle Nazioni Unite e della Corte Internazionale di giustizia lo stesso anno, i processi di Norimberga e Tokyo, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani figlia di questi ultimi, costituiscono il fondamento e la legittimazione del nuovo ordine internazionale, che vede, dalla prospettiva dei vincitori, la difesa della democrazia e il rispetto dell’individuo vincere contro l’onnipotenza dello Stato totalitario, fascista prima comunista poi. La tensione ad un diritto cosmopolitico, esteso, almeno sulla carta, alla tutela di tutti gli individui in ogni angolo del pianeta, ha dovuto fin da subito fare (o non fare) i conti con la violenza portata agli estremi da tecnologie belliche sempre più devastanti ed adibite alla morte di massa, contro ogni regola umanitaria di gestione dei conflitti che si era fino a quel momento tentato di affermare. Tracciare dei parallelismi con quello che è oggi un massacro altamente tecnologico ed indiscriminato di civili in Palestina può essere opportuno.
La strategia del moral bombing
La protagonista, in un certo senso, del secolo delle guerre e delle stragi è l’arma aerea, con il suo apice nella bomba atomica, che sintetizza in sé il nuovo incontro più che mai mortale tra tecnica e violenza. Una violenza che assume connotati impersonali, deresponsabilizzanti: a causare la morte di migliaia di persone sono esplosioni di bombe sganciate da velivoli condotti da uomini senza volto, oggi in alcuni contesti, come a Gaza, affiancati da droni armati. Un’arma che non conosce confini; sfere prima salvaguardate dalla guerra, quelle della vita sociale e privata, sono ora gli obiettivi primari.
Un conflitto totale, appunto. Per la prima volta, alla fine del secondo conflitto mondiale, le vittime civili superano quelle militari. Non conosce limiti, regolamentarne l’uso infatti si rivelò pressoché impossibile, così come senza successo reale furono i tentativi da parte delle nazioni “civili”, quelle occidentali, di limitare il coinvolgimento delle popolazioni nelle azioni militari. Le prime volte in cui si tentò di adattare il diritto di guerra alle armi moderne fu durante le Conferenze di pace dell’ Aia del 1899 e 1907, quando la prima proibì per un periodo di 5 anni il ricorso a bombe sganciate da aerei e nella seconda si dichiarò non lecito l’uso di armi di distruzione di massa come le armi chimiche e il bombardamento di città senza difesa.
Ma la Prima Guerra Mondiale, e ancor di più la Seconda, rese evidente che non era possibile stabilire regole comuni che limitassero l’uso dei bombardamenti, in quanto la pratica di tale azioni stava rapidamente entrando nelle consuetudini belliche. E i primi a non rispettarle erano proprio i firmatari di queste ed altre proposte successive. Si impose infatti nella pratica militare alleata la strategia del moral bombing, bombardamenti sistematici che nell’intenzione degli esecutori non erano volti né a combattere l’esercito nemico, né ad abbattere infrastrutture e linee nemiche, ma a terrorizzare la popolazione civile.
Come scrive Danièle Voldman in un saggio del volume “Le guerre del Novecento”, e come viene
rappresentato nel docufilm di Ezio Costanzo, si trattava di una strategia psicologica e atti di puro terrore che avevano “l’intento di confondere e disorientare il nemico, provocando movimenti di folle ed esodi incontrollati… confidavano in tal modo di ottenere un rovesciamento dell’opinione delle masse contro i loro stessi governi”. Portare al collasso morale la popolazione civile, per esasperarla e spingerla a ribellarsi al proprio governo e a chiedere la pace. Strategia che venne applicata anche all’Italia, prima e durante la guerra di liberazione.
Il processo di brutalizzazione
Messo da parte l’aspetto tecnologico e totale della violenza, un altro elemento che emerge dallo studio del Secondo Conflitto Mondiale e che possiamo ritrovare nella narrazione bellica israeliana è la brutalizzazione della guerra. Se si considerano le stragi di civili dovute all’invasione e, laddove è stato possibile, occupazione da parte dei militari nazisti, e gli ordini efferati che i soldati ricevevano ed eseguivano contro le bande partigiane, in particolare sul fronte orientale dove la guerra assunse una forte
connotazione razziale, per non menzionare il genocidio del popolo ebraico, il processo di brutalizzazione della guerra appare evidente, con ciò intendendosi una riduzione della soglia per l’esercizio della violenza
interpersonale. Che si accompagna alla disumanizzazione dell’altro, del nemico. Si potrebbe spiegare tale violenza facendo riferimento ai processi mentali, alle memorie, al background culturale precostituito di singoli e di gruppi sociali che acconsentirono ad essa; tra cui soldati che non avevano mai combattuto ma avevano ad esempio interiorizzato la figura del franco tiratore, del partigiano, combattenti disonorevoli che attaccano clandestinamente alle spalle evitando il confronto aperto tra unità militari regolari. E dunque anche la popolazione che li sosteneva, li appoggiava, o semplicemente che aveva avuto la sventura per caso di trovarsi nei pressi dei luoghi dove questi attacchi clandestini, irregolari, avvenivano, doveva essere oggetto di rappresaglie severe, per le quali i soldati in divisa erano da ritenersi irresponsabili.
Questo loro linguaggio era in parte condiviso anche dai giudici militari alleati che conducevano i processi, e trovava fondamento nelle leggi di guerra vigenti, che si basavano sul presupposto del principio di reciprocità: solo quegli avversari ritenuti capaci di una condotta onorevole potevano godere del rispetto della legge internazionale, ossia ciò riguardava solo le nazioni “civili”, quelle entità statuali che si riconoscono reciprocamente e che sono in grado di legiferare e costruire un corpus di leggi. Come le prime Convenzioni di Ginevra del secolo scorso per la regolamentazione della guerra terrestre e il trattamento dei prigionieri di guerra e dei feriti. Così oltre ad essere esclusi tutti i popoli soggetti al colonialismo, venivano delegittimate tutte quelle forme di resistenza armata e guerriglia non inquadrate in eserciti statali regolari, dai movimenti di lotta anti coloniale alle bande partigiane.
All’assenza di diritti dei cosiddetti “combattenti irregolari” si accompagnava la loro disumanizzazione, poiché non riconosciuti come combattenti legittimi. In virtù di ciò, la condotta dell’esercito tedesco è stata da molti considerata dura ma giusta, anche onorevole, e soprattutto per certi versi legittima perché legata alle norme d’onore militare, contrariamente alla guerra irregolare e subdola dei partigiani, come di chi è escluso dalla sfera occidentale civilizzata.
Il CASO PALESTINESE
Partendo da queste considerazioni, a mio avviso si possono ritrovare delle linee di continuità con i crimini commessi ai danni della popolazione palestinese a Gaza. I bombardamenti a tappeto a cui da oltre un anno i Gazawi sono sottoposti, dal mare, dall’aria e dalla terra, che colpiscono scuole, ospedali, infrastrutture e case indiscriminatamente, uniti al blocco degli aiuti umanitari, sfiancano la popolazione, psicologicamente a terra, esausta di fronte a tale distruzione. Portata al collasso morale, da un esercito che, non per gioco di parole, si definisce “il più morale del mondo” e che, come afferma il Primo Ministro Netanyahu “fa di tutto per evitare di colpire coloro che non sono coinvolti”. I numeri dei morti civili, degli sfollati, dei feriti mostrano tutto il contrario.
Ma è la logica della brutalizzazione e della legittimità degli uomini in divisa a vincere, perché il nemico, e si fa fatica a distinguere se i militari israeliani si riferiscano ad Hamas o anche al resto della popolazione, viene descritto con linguaggio coloniale come “animale umano”, barbaro all’infuori del mondo civilizzato nel combattere il quale non bisogna avere limiti, perché la sua condotta, opposta alla propria, è immorale. Dove immorale vuol dire porsi al di fuori delle leggi della guerra, che come detto sopra favoriscono gli attori statali, delegittimando le altre categorie. Per quanto riguarda il trattamento dei civili, che il diritto internazionale tutela, di nuovo la retorica è molto simile a quella utilizzata durante la seconda guerra mondiale per giustificare le stragi contro di essi, indistintamente bollati come collaboratori dei partigiani e quindi meritevoli dello stesso trattamento.
Come evidenziato da Neve Gordon in un articolo pubblicato da Al Jazeera, quando Israele afferma che “non ci sono civili non coinvolti”, a seguito dell’avvertimento dato ai palestinesi del Nord della Striscia di lasciare le proprie case ed evacuare al Sud, sa che questo le permetterà di negare l’esistenza stessa di civili in quell’area che si prepara a colpire, anche se moltissime persone sono impossibilitate a scappare. Ma questa narrativa permette di bollare i civili rimasti come “partecipi alle ostilità” o “volontari scudi umani”, e quindi possono essere eliminati senza che ciò abbia ripercussioni morali.