Water Grabbing e il caso israeliano
Il 22 marzo si festeggia la giornata mondiale dell’acqua istituita dalle Nazioni Unite nel 1992 in occasione della Conferenza di Rio de Janeiro, che intende celebrare la risorsa come un valore universale, un bene di tutti.
Lo stesso proposito è ripreso dalle Nazioni Unite nel sesto obiettivo dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritta nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’organizzazione.
Recita: “Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico sanitarie”.
Ma l’acqua, nonostante la sua importanza vitale, sembra essere un diritto per pochi.
La Mercificazione dell’acqua
Il water grabbing, tradotto in italiano come accaparramento dell’acqua, viene definito dal Water Grabbing Observatory come quel fenomeno che si riferisce a situazioni in cui attori potenti, che siano privati o pubblici, statali e non, dagli eserciti alle grandi multinazionali, sono in grado di prendere il controllo o deviare a proprio vantaggio specifiche risorse idriche preziose, sottratte a comunità locali o intere regioni la cui sussistenza si basa proprio su quelle risorse e quegli ecosistemi che vengono depredati.
Come nel caso dell’Eswatini, piccolo stato nell’Africa australe, dove la terra è stata resa arida a causa del prelievo da parte di grandi corporazioni di miliardi di litri di acqua dai più importanti bacini idrici del paese, che vengono destinati all’irrigazione di ettari di piantagioni di canna da zucchero.
A vantaggio di grandi investitori multinazionali, come The Coca-Cola Company.
A tutto svantaggio invece delle comunità locali, la cui sopravvivenza viene minacciata.
L’acqua non è più bene comune ed accessibile a tutte le persone ma diventa bene privato, per cui si è paradossalmente costretti a pagare per averla, anche se scorre nel proprio territorio.
Spiega Emanuele Bompan dell’Osservatorio, che avviene una vera e propria mercificazione dell’acqua, che diviene un bene da commercializzare i cui diritti di concessione e sfruttamento vengono scambiati sui mercati finanziari. Una risorsa primaria che nasce fluida e fruibile, libera, fondamentale per la sopravvivenza dell’essere umano, e che diventa mera merce da privatizzare a fini speculativi.
Con il termine water grabbing non ci si riferisce solo al “furto” di acqua, ma soprattutto alla mala gestione di questa.
Per esempio quando vengono costruite dighe ma non viene condotta un’efficace valutazione degli impatti sociali ed ambientali, o nei casi di inquinamento dell’acqua per scopi industriali che portano beneficio a pochi e danneggiano gli ecosistemi e le comunità locali, come nel caso dell’estrattivismo, nel Sud come nel Nord del mondo. In Pennsylvania il processo di estrazione di gas non convenzionale ha privato intere città dell’acqua potabile, perché le falde acquifere sono state inquinate dai gas di scisto.
Il fenomeno è complesso e ad esso sono legati e ricondotti conflitti, forti instabilità sociali, che spesso favoriscono la formazione di gruppi armati, e migrazioni.
In Asia il fiume Mekong, bacino fluviale transfrontaliero che bagna 6 diverse nazioni, Cina, Myanmar, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam, tutte con un forte interesse verso questa grande risorsa, ha visto le sue acque essere oggetto della realizzazione di numerosissime infrastrutture idriche, oltre 40 di queste sono mega- dighe, di cui 20 nella sola Cina. Se a ciò si aggiunge l’effetto dei cambiamenti climatici, che si presentano nella forma di maggiore siccità e riduzione delle piogge monsoniche, l’acqua a disposizione, soprattutto nei paesi a valle, il Vietnam, Thailandia e Cambogia , è diminuita conseguentemente ad una riduzione rilevante dell’apporto idrico del fiume. Non è improbabile intravedere, in un contesto del
genere, una guerra tra Stati in cui l’acqua diventa uno strumento di controllo potente, un’arma politica che può essere utilizzata per mettere pressione in situazioni di tensioni politiche e/o militari.
E’ questo il caso che riguarda molti bacini idrici transfrontalieri, come il Nilo o i fiumi Tigri ed Eufrate. Considerando l’apporto negativo del riscaldamento globale, evidente nel caso del Lago Ciad il cui bacino tra il 1962 e il 2014 ha perso oltre il 90% della sua superficie, è inevitabile il peggioramento di situazioni già critiche.
Si può quindi combattere per avere il controllo di questa risorsa, o vederla come un mezzo attraverso il quale veicolare una strategia di potere.
Come nel caso Israele-Palestina, dove la gestione idrica rappresenta rispettivamente un vantaggio e uno svantaggio politico importante.
L’acqua come arma: il caso israeliano
Analizzare il caso israeliano riguardo al water grabbing, può essere esemplare nel mostrare le diverse forme che può assumere il fenomeno, fino ad utilizzare la privazione pressoché totale dell’acqua come strumento per minacciare le vite dei palestinesi, con particolare evidenza dopo il 7 Ottobre.
L’acqua, come altre risorse naturali a Gaza e nella Cisgiordania, è per lo più vista da Israele come di sua esclusiva proprietà; da una parte viene sfruttata per andare incontro ai bisogni dei cittadini israeliani, soprattutto i coloni, e dall’altra per esercitare controllo e pressione sui Palestinesi.
Come rivela un report di B’Tselem, Il centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati, nel 1967, a seguito della guerra dei Sei Giorni, Israele ha preso il controllo di tutte le risorse idriche nei territori appena occupati, tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, incorporando il sistemo idrico palestinese sotto il controllo israeliano. La principale conseguenza di ciò fu il divieto per i palestinesi, sia a Gaza sia in Cisgiordania, di costruire qualsiasi tipo di impianto idraulico per l’estrazione dell’acqua da nuove fonti o per lo sviluppo di nuove infrastrutture o la ristrutturazione di vecchie, senza il permesso dell’esercito israeliano, quasi impossibile da ottenere.
L’uso arbitrario che Israele ha fatto e continua a fare della gestione dell’acqua, a tutto svantaggio palestinese, fa sì che questi ultimi soffrano di gravi carenze idriche che hanno ripercussioni sulla salute e sull’organizzazione della vita sociale, lavorativa e politica.
In Cisgiordania, gli Accordi di Oslo del 1993 e 1995 hanno rafforzato il controllo israeliano, garantendo allo Stato Ebraico l’80% delle riserve idriche e solo il 20% ad uso palestinese, che ha visto quasi un raddoppiamento della sua popolazione da quegli anni e che, secondo i dati di B’Tselem, riceve solo il 75% dell’apporto idrico stabilito mentre Israele gode di una fornitura illimitata. Secondo l’Autorità Palestinese dell’Acqua, nel marzo 2023 nella West Bank la media per persona al giorno, compreso anche l’uso commerciale, era di 89 litri, a Gaza 82,7; entrambe sotto la soglia minima raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che è di 100 litri pro capite al giorno, solamente considerando l’uso domestico e personale. Questi dati saltano ancora più agli occhi se comparati con quelli forniti da Mekorot, la compagnia che gestisce per la maggior parte il servizio idrico israeliano, che parlano di 247 litri pro capite al giorno, nonostante Israele abbia meno del doppio della popolazione delle due aree
palestinesi insieme.
E’ stata finora evidenziata la mala gestione dell’acqua, ma sono moltissime le comunità a cui è stato impedito, spesso con l’uso della forza, di collegarsi in qualunque modo alla rete idrica. Le severe restrizioni israeliane sullo sviluppo delle infrastrutture idriche sono state esacerbate dai coloni e dalle autorità che hanno preso possesso delle sorgenti d’acqua naturali a cui i residenti si sono affidati per
anni, distruggendo cisterne e piscine alimentate da sorgenti e bloccando l’accesso ad esse. Tutte queste azioni fanno parte di un continuo sforzo delle autorità israeliane per cacciare i residenti dalle loro case, e sono un mezzo efficace per l’articolarsi di dinamiche di potere che trovano spazio in una strategia di
occupazione.
Queste condizioni hanno costretto in parte i palestinesi a dipendere da Mekorot per il proprio approvvigionamento idrico, che fornisce quasi la metà dell’acqua potabile consumata dalle comunità palestinesi, a prezzi considerevoli. In caso di penuria, le valvole che riforniscono queste ultime vengono spente, mentre gli insediamenti israeliani continuano a ricevere acqua. L’ONU ha denunciato il ruolo
di Mekorot nel sostenere il sistema di insediamento, notando che l’azienda intrinsecamente trae vantaggio e contribuisce alla stabilità degli insediamenti illegali.
A Gaza, prima del 7 Ottobre, la situazione era ancora più drastica visto il blocco terrestre, aereo e navale imposto da Israele dal giugno 2007 sulla Striscia, come punizione collettiva contro l’intera popolazione. Non veniva consentito l’ingresso di materiali considerati a “duplice scopo”, cioè che possono essere utilizzati per scopi civili o militari. Tra questi, sono compresi i materiali da costruzione, come il cemento e il ferro, e altre materie prime, necessari per riparare le infrastrutture idriche ed igienico-sanitarie di Gaza, che sono state gravemente danneggiate da bombardamenti ed assalti israeliani, soprattutto nelle operazione del 2008 e 2014.
Poiché l’unica fonte idrica di cui potevano disporre, ovvero un breve tratto della falda acquifera costiera che passa sotto la Striscia , è stata inquinata da un eccessivo pompaggio e dalla contaminazione delle acque reflue, rendendo il 97% dell’acqua pompata da essa e fornita alle case non sicura da bere, e poiché Israele proibisce trasferimenti di acqua dalle falde acquifere presenti in Cisgiordania, anche i gazawi hanno dovuto in buona parte dipendere da Mekorot.
Dopo il 7 Ottobre, la situazione è radicalmente peggiorata, e come denuncia un report di Oxfam del luglio 2024 sui crimini di guerra legati all’acqua a Gaza, “la distruzione e l’ostruzione sistematica delle infrastrutture idriche e del sistema sanitario di Gaza ha portato a gravi carenze di acqua ed estese crisi sanitarie…che nel quadro di un totale assedio e bombardamenti arei quasi quotidiani ha portato la popolazione sull’orlo della carestia”.
L’analisi di Oxfam rileva che i palestinesi nella Striscia hanno avuto solo 4,74 litri d’acqua per persona al giorno per tutti gli usi, incluso bere, cottura e lavaggio, che è una drastica riduzione del 94% della quantità di acqua disponibile prima.
Inoltre la produzione di acqua da fonti all’interno della Striscia di Gaza è diminuita dell’84%5 a causa della distruzione delle infrastrutture idriche e dall’inizio dei suoi attacchi Israele ha danneggiato o distrutto cinque siti di acqua e servizi igienico- sanitari ogni tre giorni.
Come ha dichiarato la commissione internazionale indipendente delle Nazioni Unite d’inchiesta sui Territori palestinesi Occupati, le dichiarazioni dei funzionari israeliani mostrano la loro intenzione di strumentalizzare la fornitura di beni di prima necessità, compresi cibo, medicine, acqua, carburante ed elettricità e tenere in ostaggio l’intera popolazione della Striscia di Gaza per perseguire obiettivi politici e militari.
E’ chiaro come l’acqua rappresenti un’arma funzionale all’implementazione di certe politiche coloniali di cui l’unica democrazia del Medio Oriente fa largo uso, nello stesso tempo presentandosi al mondo come paese leader nel campo delle tecnologie ed efficienza idrica.
Mentre vedono la luce progetti che riguardano la costruzione di sofisticate infrastrutture per la gestione idrica come impianti di desalinizzazione, l’ultimo dei quali è stato pensato per pompare acqua di mare desalinizzata dal Mediterraneo verso il Mar di Galilea, le cui dimensioni sono in continua decrescita, i palestinesi nello stesso territorio in cui i vigneti, oliveti e piantagioni israeliane fioriscono hanno
difficoltà a coltivare persino le più basse rese agricole come il grano, le lenticchie e i ceci.