Cinema d’autore: Pier Paolo Pasolini, storia di un intellettuale solo
“La mia indipendenza che è la mia forza, implica la solitudine che è la mia debolezza”
Pier Paolo Pasolini è stato in vita un intellettuale solo. Un personaggio scomodo che ha pagato a caro prezzo la sua lungimiranza. Parlare di lui e della sua arte, a quarant’anni esatti dalla sua morte, è un’impresa ardua che rischierebbe di stilizzare sin troppo il personaggio, relegandolo allo spazio angusto di un semplice articolo di giornale.
Noi di 2duerighe.com però volevamo iniziare questa speciale rubrica sul cinema d’autore partendo proprio da lui, che è stato più autore di tutti.
Scrittore, saggista, poeta, regista. Una figura trasversale che in maniera tagliente ha saputo fotografare la realtà a lui contemporanea, accanendosi ove necessario nello smascherare le brutture del capitalismo, vera e propria religione del suo tempo (si consenta la parafrasi di una sua meravigliosa raccolta di poesie).
La lotta ai demoni del consumismo borghese per Pasolini è infatti qualcosa che va oltre la semplice critica nei confronti di un modello destinato a morire. La sua è piuttosto una vera e propria indagine di carattere sociologico, economico, politico, pagata poi a caro prezzo con una morte tanto brutale quanto misteriosa.
La filmografia di Pasolini è zeppa di riferimenti alla sua solitudine. Una solitudine che è anche quella dei personaggi dei suoi film, costretti il più delle volte a dover combattere su un campo di battaglia sterile, baricentro tutt’altro che equilibrato che vede contrapporsi il primitivismo della borgata alla continua involuzione di valori imposta dalla società di massa.
Ed in tal senso, come non ricordare Giovanni Stracci (Mario Cipriani), un morto di fame qualsiasi che, per contrappasso, muore di indigestione ne La ricotta, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G (1963). Quel passaggio della pellicola, che aveva visto affiancarsi oltre all’autore bolognese anche Rossellini, Godard e Gregoretti, segnava definitivamente un primo cambiamento di rotta rispetto alla poetica filmica e letteraria di PPP.
Il “Povero Stracci” è infatti costretto a “Crepare… [perché] non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo”. Segno questo di una primordiale abiura dei ragazzi di vita, non più visti come depositari di una innocenza fuori dal tempo, quanto piuttosto l’ennesimo esempio di corruzione borghese.
Ma se quindi la purezza non alberga più nemmeno in quei ragazzotti smargiassi che bazzicavano il biondo Tevere, se anche i vari Cataldi Vittorio ed Ettore Garofalo (rispettivi protagonisti di Accattone e Mamma Roma) sono a rischio dalla degenerazione del mondo moderno, dove cercare la vera autenticità?
Una risposta a questo quesito Pasolini riuscirà a darla soltanto molti anni dopo quando, dopo aver visto definitivamente decadere gli ultimi bagliori marxisti (si veda Uccellacci e Uccellini), giungerà alla così detta Trilogia della vita, insieme di tre film per così dire esotici che si staccano dalla realtà contemporanea per mostrarne i limiti etici e denunciarne il finto pudore di stampo medievale.
Ritorno alla vita che però può essere considerato anche come un preludio della definitiva morte dei sensi, aspetto principale su cui si basa lo scandaloso Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).
Il sadismo di quest’ultima pellicola, reso esplicito già nel titolo dell’opera, era infatti già presente sottotraccia nei precedenti Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte.
Ma la degenerazione totale ed il definitivo appiattimento dell’eros, reso come aberrante e straziante inno al feticismo, sono la conclusiva perdita di fiducia nei confronti di una civiltà odierna ormai destinata all’eccesso, che oggi osserva la ripensata Tetralogia della Morte con un vago senso di rimpianto nei confronti di quelle immagini premonitrici.