Tutte le vie del giornalismo: l’informazione secondo Fabio Tamburini
Nel pieno della stagione estiva abbiamo intervistato il Direttore Responsabile de «Il Sole 24 Ore» e dell’Agenzia di Stampa Radiocor Fabio Tamburini. Una chiacchierata veloce con tanta, tanta carne al fuoco: il giornalismo di oggi, lo stato di salute del nostro Paese, gli scenari geopolitici per il futuro.
Come è nata la sua passione per il giornalismo?
Rientrava tra una rosa di possibilità da verificare. Una era di proseguire il cammino universitario una volta terminati gli studi della laurea in legge. Una scelta scartata perché avrebbe significato una decina d’anni di attività come assistente universitario e successivamente concorsi per diventare docente, dall’esito incerto per mancanza di posti disponibili. Una seconda possibilità era di fare l’editor nel settore libri, ma poi ho capito che in Italia cimentarsi in una professione del genere avrebbe avuto senso soltanto se fossi stato editore. Ma non avendo io una casa editrice ho scelto, appunto, di lasciare perdere. La terza possibilità era la carriera da magistrato. In questo caso avrei dovuto prolungare di due anni il percorso di studi per preparare il concorso e per questo ho scelto un altro percorso: gli anni erano passati ed era arrivato il momento di rendermi autonomo dalla famiglia. La quarta, invece, era di fare il giornalista ed è stata la strada che alla fine ho percorso togliendomi molte soddisfazioni.
Quanto è cambiata negli anni la professione giornalistica con le nuove tecnologie?
Per dare un’idea di quanto tempo sia passato, quando ho cominciato a fare il giornalista non esistevano gli smartphone. Non c’erano neanche i personal computer, si utilizzava la macchina da scrivere. Il mio primo incarico fu di chiudere il giornale in tipografia: il mio compito era di verificare che righe e colonne fossero messe nel modo giusto, non capovolte. Oggi chiudo il giornale, ovunque mi trovi, e grazie al pc faccio le correzioni necessarie e spedisco in tipografia. Questo rende molto l’idea di quanto sia cambiato questo lavoro.
Nel corso degli anni anche Il Sole 24 Ore ha cambiato pelle. Il cartaceo oggi è solo una delle forme con cui il brand comunica la notizia ai suoi lettori. Quali sono state le sfide più avvincenti e difficili che ha portato avanti con l’arrivo dell’omnicanalità?
Oggi ritengo sia sbagliato immaginare giornalisti specializzati soltanto in format o attività, come video, carta stampata, agenzie di stampa o radio. Ognuno ormai deve saper fare tutto, caratteristica che è più complicato riscontrare in giornalisti con una certa età. Nei giovani, sicuramente la multimedialità è un obbligo.
I dati mostrano una crescita dell’occupazione, ma la vera sfida italiana è la produttività. Quali possono essere secondo lei le misure più adatte ad affrontare questa sfida per il nostro Paese?
Negli ultimi anni c’è un dato nuovo che è quello dell’aumento dell’occupazione. È positivo, ma parallelamente riscontro che non è aumentata la produttività. Come mai? Io penso che la ragione principale possa essere dovuta al fatto che per aumentare la produttività è necessario essere capofila nell’innovazione.
L’industria manifatturiera italiana è fatta di piccole e micro-imprese. È difficile per loro tenere il passo con l’avanzare delle nuove tecnologie. Inoltre, occorre aggiungere il fatto che questo Paese, tra tante virtù, ha anche qualche difetto grave. Per esempio la burocrazia, vincoli di leggi soffocanti, una parte significativa dell’economia in nero, pari a circa cento miliardi l’anno. Questo è un Paese dove la legalità è spesso una chimera. Questo significa caporalato, lavoro in nero, evasione fiscale e tutto ciò naturalmente non aiuta la trasparenza e la produttività. Così i numeri reali non corrispondono ai numeri ufficiali.
Secondo lei che fase stiamo attraversando della globalizzazione? Sono ormai in voga parole come “reshoring” o “friendshoring”. Sembra essersi aperta la fase finale delle spinte espansive della globalizzazione. Ritiene sia così o che sia solo un momento di transizione?
Eravamo convinti che la globalizzazione dovesse durare per sempre. Il mondo era stato costruito su questa convinzione, compreso l’attività delle imprese e il commercio internazionale. Si è visto che era un’idea sbagliata, il mondo è andato in un’altra direzione e la globalizzazione ormai è un lontano ricordo. Io credo però che sia necessaria una riflessione e mi auguro che avvenga in tempi brevi. Perché la globalizzazione sta venendo sostituita dal bellicismo, dal ritorno delle guerre come strumento di soluzione dei conflitti. È chiaro che le guerre attuali impediscono il ritorno di una globalizzazione. Ma con le guerre si vive male e io sono un grande sostenitore della pace. Quindi spero che il mondo ritrovi la bussola che ha perso e che le guerre vengano archiviate, perché le decidono in pochi e muoiono in molti. Questo è intollerabile, spero che i molti prevalgano sui pochi al potere che mandano al macello la povera gente. Solo così sarà possibile una nuova globalizzazione.