Houthi sotto attacco: il raid americano

In principio era la libertà di navigazione. O almeno, così ci raccontano. Poi, come sempre, i missili. Perché quando l’America decide di insegnare democrazia e ordine mondiale, l’unico vocabolario che conosce è quello delle bombe. Così, nella notte tra il 14 e il 15 marzo, l’amministrazione Trump ha lanciato una massiccia operazione militare contro gli Houthi nello Yemen. La giustificazione? Proteggere il Mar Rosso dagli attacchi dei ribelli sostenuti dall’Iran, che da mesi bersagliano navi dirette verso Israele e i suoi alleati. Il bilancio ufficiale è ancora incerto, ma le esplosioni nella capitale Sana’a parlano chiaro: almeno 31 civili uccisi e più di 100 feriti. L’obiettivo dichiarato erano le basi missilistiche e i centri di comando Houthi, ma quando si bombarda a tappeto, l’effetto collaterale ha sempre lo stesso nome: carneficina.
L’operazione, guidata dalla USS Harry S. Truman, è stata presentata come una risposta “necessaria e proporzionata” alle minacce dei ribelli yemeniti. L’attacco americano arriva dopo settimane di tensioni crescenti e rappresenta un chiaro segnale a Teheran: Washington non ha alcuna intenzione di permettere che l’Iran continui a influenzare la regione senza conseguenze. Un messaggio che, nella visione trumpiana, si traduce con un’escalation militare a colpi di testate esplosive.
Da mesi, gli Houthi lanciano attacchi nel Mar Rosso contro navi legate a Israele e alle monarchie del Golfo. Un atto ostile, certo, ma che nasce in un contesto preciso: l’invasione di Gaza da parte di Israele e l’indifferenza internazionale di fronte ai massacri quotidiani perpetrati dai governi “amici”. L’Occidente si indigna per i missili Houthi, ma chiude entrambi gli occhi sulle bombe israeliane che ogni giorno piovono sui civili palestinesi. Due pesi, due misure.
Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, non ha perso tempo nel denunciare l’attacco come una provocazione e ha ribadito che Teheran non accetterà lezioni da chi finanzia guerre e poi si scandalizza per le reazioni. Ed effettivamente, la strategia americana ricorda da vicino quella già vista in Iraq, in Siria, in Afghanistan: destabilizzare per poi intervenire come “pacificatori”, lasciando dietro solo macerie e odio. La cosa che stupisce meno di tutte è il silenzio dell’Europa. Nessun leader ha osato mettere in discussione la decisione di Trump, nessuno ha chiesto spiegazioni su una missione che rischia di allargare il conflitto in una delle aree più instabili del pianeta.
Nel frattempo, il popolo yemenita continua a pagare il prezzo più alto. Uno Yemen devastato da anni di guerra, fame e malattie si ritrova ancora una volta al centro del grande gioco geopolitico, usato come campo di battaglia per le ambizioni di Washington, Riad e Teheran. Dicono che questo attacco fosse inevitabile. Che serviva a “ristabilire la sicurezza”. Ma la sicurezza di chi? Di certo non dei civili che stanotte hanno perso la casa, i figli, la vita. Perché quando gli americani sganciano bombe, il risultato è sempre lo stesso: più morte, più vendetta, più guerra. E in questo grande teatro dell’assurdo, la sola verità è che nessuno, a Washington come a Riad o a Teheran, ha davvero interesse alla pace.