Il Danish Compromise: una norma che paralizza le banche europee

Il Danish Compromise: una norma che paralizza le banche europee
Quando tutto sembrava fatto, due operazioni bancarie, Banco BPM – Anima e UniCredit – Banco BPM, rischiano di saltare proprio a causa del Danish Compromise: ma cos’è e come funziona?
Il Danish Compromise è una norma introdotta nel 2012 nel quadro del Capital Requirements Regulation (CRR) dell’Unione Europea, e rappresenta uno degli strumenti chiave per la crescita e l’espansione delle banche: originariamente concepita per agevolare quegli istituti che detengono partecipazioni in compagnie assicurative, questa misura ha poi avuto un impatto significativo sul panorama finanziario europeo, diventando un fattore determinante nelle operazioni di fusione e acquisizione, anche se le recenti evoluzioni normative e le differenze interpretative stanno creando incertezze che potrebbero limitarne il potenziale.
Il nome
Partiamo dal nome, si parla di “Danish Compromise” perché è stato introdotto sotto la presidenza danese dell’Unione Europea. La misura permette alle banche che possiedono partecipazioni azionarie in compagnie assicurative di beneficiare di un trattamento più favorevole sotto il profilo patrimoniale: in questo modo si cerca di incentivare la creazione di conglomerati finanziari, consentendo alle banche di espandersi senza compromettere la loro solidità patrimoniale.
In particolare, gli istituti di credito in questione hanno la possibilità di dedurre dal loro capitale il valore dell’avviamento derivante dall’acquisizione di una società, rendendo così queste acquisizioni meno costose e più attraenti, con un ritorno sugli investimenti potenzialmente molto più elevato rispetto alle operazioni bancarie tradizionali.
Autorità Bancaria Europea
Nel 2023 l’Autorità Bancaria Europea (EBA) ha compiuto un passo ulteriore, estendendo i benefici del Danish Compromise anche alle acquisizioni effettuate dalle banche tramite le loro controllate assicurative, inclusi i fondi d’investimento e le società di asset management, alimentando un’ondata di speculazioni sul consolidamento del settore bancario europeo, in particolare per quanto riguarda l’ingresso delle banche nel mercato della gestione patrimoniale.
Su tutte, l’operazione di BNP Paribas, che ha acquisito Axa Investment Managers tramite la sua controllata Cardif, è un esempio emblematico di come il Danish Compromise possa incentivare l’espansione delle banche nei mercati non bancari.
Tuttavia, nonostante le opportunità aperte dal Danish Compromise, il recente orientamento della BCE ha sollevato alcune preoccupazioni, segnatamente perché Francoforte ha chiarito che quando una banca acquisisce una società di asset management, la partecipazione deve essere consolidata e l’avviamento deve essere dedotto dal capitale, senza il beneficio del Danish Compromise.
Nel caso all’ordine del giorno di Banco BPM, la banca aveva pianificato di applicare il Danish Compromise anche nell’acquisizione di Anima, eppure la BCE ha deciso che l’operazione non potesse beneficiare delle agevolazioni previste dalla norma, limitando così le potenzialità di tale acquisizione e mettendo in discussione l’uniformità d’applicazione del regolamento (e probabilmente mettendo la parola “fine” sull’operazione).
Danish Compromise
Un punto cruciale per comprendere meglio la questione è il fatto che il Danish Compromise non è accessibile a tutte le banche, ma solo a quelle classificate come “conglomerati finanziari”, e, per ottenere tale classificazione, le banche devono soddisfare specifici requisiti di dimensione e complessità, nonché avere il controllo totale su una compagnia assicurativa integrata, cosa che al momentoè soddisfatta da soli 63 entità in tutta Europa.
Le normative più rigide e l’incertezza legata alla loro applicazione potrebbero dunque anche ridurre l’efficacia di questa misura che nel decennio precedente era sembrata più che rivoluzionaria, soprattutto per quelle banche che, come Unicredit, si erano orientate a utilizzare il Danish Compromise per ottenere ritorni superiori sugli investimenti. Andrea Orcel, CEO di Unicredit, ha infatti sottolineato come senza l’applicazione di questa norma il ritorno sugli investimenti scenderebbe notevolmente, rendendo l’operazione meno allettante.
Il futuro del Danish Compromise dunque sembra incerto: da un lato questo continua a rappresentare uno strumento utile per il consolidamento finanziario in Europa, permettendo alle banche di crescere attraverso acquisizioni non bancarie, ma dall’altro l’incertezza normativa e le divergenze interpretative tra la BCE e le altre autorità di vigilanza potrebbero ostacolare l’efficacia di questa misura, rendendola sgradevole alla maggior parte delle banche, che sempre più spesso impongono i loro gusti alla politica europea.