Crollo Borse asiatiche: le cause
Torna ad aleggiare il fantasma delle Borse asiatiche, dopo la chiusura in netto calo di Tokyo e il crollo vertiginoso di Shanghai. L’indice Nikkei ha ceduto il 2,35% e perso 402,01 punti, attestandosi a quota 16.708,90, mentre Shanghai ha lasciato sul terreno il 6,4% a causa del panico generale scatenatosi di recente. Male anche la Borsa di Shenzhen, con l’indice Component che sprofonda a 9.483,55 punti a -6,96%. Su tale andamento ha pesato la performance negativa di Wall Street e la nuova caduta del prezzo del petrolio, sceso al di sotto della quota di 30 dollari a barile.
Il nuovo crollo della Borsa asiatica arriva nonostante le significative iniezioni di liquidità effettuate dalla Banca centrale cinese (Pboc) in vista delle festività per il nuovo anno lunare che inizierà i primi di febbraio. La Pboc, infatti, ha immesso circa 440 miliardi di yuan (l’equivalente di circa 62 miliardi di euro) nel sistema finanziario cinese, al fine di soddisfare le sempre maggiori necessità di cassa che, normalmente, si verificano prima del Capodanno cinese. In aggiunta, per l’occasione, le imprese pagano stipendi e bonus annuali ai dipendenti, situazione che va ad incidere sulla crisi di liquidità. Tuttavia, la rinnovata iniezione di capitali non ha impedito il crollo dei mercati, che hanno trascinato anche quelli europei con l’apertura in negativo di Parigi (-1,5%) e Milano (-1,6%), dove il titolo di Banca Montepaschi ha avviato le contrattazioni a -8,7% prima di essere sospeso.
Ma quali sono le cause che determinano il crollo delle borse asiatiche? È possibile rintracciarle esclusivamente nella diminuzione del prezzo del petrolio? In realtà, occorrerebbe sgombrare il campo da alcuni tipici e ricorrenti fraintendimenti e false convinzioni: la Cina, finora primo acquirente al mondo di petrolio, non ha in realtà più così tanta necessità di oro nero. Il colosso petrolifero Exxon, infatti, ha di recente reso noto di aver ridotto in maniera significativa le attese di vendita in Cina. Risulta nettamente diminuita, quindi, la previsione di domanda per l’energia del Paese, che si attesterebbe al 2,2% annuo da qui fino al 2025. La domanda inizierà poi a riprendersi entro il 2030. La preoccupazione degli investitori, dunque, riguarda le scorte ferme, e solo in subordine i conseguenti prezzi del petrolio tornati vicino a minimi pluriennali e un’economia cinese in forte rallentamento. A questo va ad aggiungersi il piano della Federal Reserve, che ha deciso di alzare i tassi di interesse fino a quattro volte nel 2016, a tal punto da stimolare la fuga dei capitali dall’Asia verso gli Stati Uniti, la continua esportazione del petrolio da parte dell’Iraq e il mancato recesso dell’Arabia Saudita dalla politica delle quote di mercato.