Chi ha ingabbiato il libero mercato?

Donald Trump, istrionico e iconico presidente degli Stati Uniti, dal giorno del suo insediamento – neanche un mese fa – sta giurando guerra, commercialmente parlando, a mezzo mondo.
Proprio Trump, uomo di finanza e speculazione globalizzata, sembra aver intuito l’importanza della sovranità nazionale e della difesa degli interessi dei propri cittadini – o investitori – in questo momento storico più che mai, tracciando una rotta politica di protezione, anche aggressiva, del tessuto produttivo e sociale del Paese: resta però da capire se i dazi siano effettivamente la misura che s’intende perseguire, o se si tratta di minacce paventate per ottenere altri accordi su dossier comunque cruciali.
Lo scorso 1° febbraio il presidente statunitense aveva firmato l’ordine esecutivo per imporre, dal 4 febbraio, dazi del 25% contro Canada e Messico, e del 10% contro la Cina.
Chiaramente tutte e tre le nazioni coinvolte non hanno fato attendere la loro risposta, minacciando contromisure dello stesso tipo, segnatamente, per quanto riguarda il Canada, anche in ambiti cruciali come l’energia; inoltre la Cina ha dichiarato che presenterà una causa contro gli Stati Uniti presso l’Organizzazione mondiale del commercio.
Poi però, il 4 febbraio, giorno in cui i dazi sarebbero dovuti entrare in vigore, Trump non ha proceduto verso Canada e Messico, sospendendo le misure previste per un mese: il tycoon infatti ha confermato l’accordo con il Messico in cambio del dispiegamento di 10mila soldati messicani al confine per contenere il flusso di droghe e migranti, aggiungendo che, nel mese di sospensione, ci saranno colloqui per trovare un ulteriore accordo, stavolta a lungo termine.
Sempre nella stessa giornata, anche il Canada ha annunciato di aver ottenuto dagli Usa una sospensione dei dazi per 30 giorni, in cambio di un rafforzamento del confine, a seguito di una telefonata di Trump con il premier canadese, ormai dimissionario, Justin Trudeau.
Facciamo però un passo indietro, cosa sono i dazi?
I dazi sono imposte indirette (volgarmente potremmo dire “tasse”) sui consumi, che colpiscono la circolazione dei beni da uno Stato all’altro; vengono pagati normalmente alla dogana dall’esportatore, e, una volta compiuto il pagamento, la merce in questione può circolare liberamente in un determinato mercato.
I dazi provocano aumenti anche molto elevati dei prezzi: per questa ragione vengono usati dai governi per ridurre l’utilizzo di una determinata merce all’interno del proprio Paese, proteggendo la produzione nazionale da fattori esterni.
I dazi quindi costituiscono dei freni al commercio, proprio perché rendono le merci molto poco convenienti.
Nel mirino degli Usa, sul fronte dei dazi, c’è anche l’Ue.
Parlando con dei reporter nello Studio Ovale, Donald Trump, alla domanda se intendesse imporre dazi sui prodotti dell’Ue aveva risposto: “volete la risposta vera o quella politica? Certo che lo farò, l’Europa ci ha trattati malissimo”, mantenendo coerente la linea delle ostilità verso quei Paesi che non hanno – almeno secondo lui – un rapporto commerciale “equilibrato” con gli Usa.
La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, aveva da subito rilanciato con forza – forse bluffando – che, se il tycoon non avesse fatto marcia indietro, la ritorsione a misure definite “ingiuste e arbitrarie” sarebbe stata “ferma”, anche a costo di mettere a rischio uno dei rapporti commerciali più importanti al mondo.
Non più di una settimana fa poi, Donald Trump ha risposto ad alcuni giornalisti a bordo della Air Force One, dicendo che “gli Stati Uniti imporranno tariffe del 25% sulle importazioni di acciaio e alluminio”, e, incalzato su quali Paesi saranno nello specifico colpiti, ha aggiunto: “tutti, qualunque acciaio entri negli Usa avrà una tariffa del 25%”; pochi giorni dopo infatti è arrivato il decreto della Casa Bianca con cui si istituiscono dazi al 25% sulle stesse importazioni nei confronti dell’Ue a partire dal prossimo 12 marzo, aumentando i dazi già del 10% previsti per i medesimi prodotti nel primo mandato Trump.
Gli stessi dazi del 25% si applicano anche sull’acciaio e l’alluminio di altri Paesi, tra cui Messico e Canada, che, quando scadrà la sospensione accordata delle precedenti misure, avrebbero così una tassazione del 25% su tutti i prodotti, cui andrebbe sommato un ulteriore 25% per acciaio e alluminio.
Ursula Von der Leyen ha comunque ribadito di nuovo che l’Europa adotterà contromisure rispetto ai dazi statunitensi, ma è evidente la paura che queste scelte possano mettere in crisi il nostro sistema economico, come è evidente che soprattutto i più osteggiati dalla Presidenza Trump, segnatamente Scholz, che non sembra avere lunga vita politica davanti a sé, e Macron, temano ripercussioni peggiori di quanto non si possa pensare, tanto che il portavoce della Commissione, Olof Gill, ha subito chiarito che “il commercio è una competenza esclusiva dell’Ue” e “gli Stati membri non possono negoziare da soli”.
Questi delicati equilibri fanno sponda con le dichiarazioni di Trump di fine gennaio, che, interrogato sul fatto se queste tariffe avrebbero comportato un’applicazione automatica delle imposte anche per l’Italia, ha replicato solo: “Meloni mi piace molto, vediamo cosa succede”, lasciando aperto un possibile spiraglio ad un negoziato ad hoc con l’Italia, onde evitare l’applicazione di dazi che farebbero non pochi danni a un’industria già poco florida.
Le parole del presidente degli Stati Uniti potrebbero delineare il ritorno dei dazi selettivi, modulati in funzione del livello di gradimento del singolo leader politico; i più maliziosi si chiedono se questo non sia uno strumento per cercare di dividere i Paesi dell’Ue proprio nel momento cruciale per il suo futuro, con il “Rapporto Draghi” che ha sottolineato una condizione di difficoltà da affrontare strutturalmente quanto prima: vedremo se l’Europa riuscirà finalmente a rialzare la testa e rivendicare la propria centralità.