Terre rare: una sfida per l’Europa

Cellulari, hard disk , schermi, biciclette e auto elettriche, turbine eoliche, robot: né le nuove tecnologie, né la transizione ecologica sono pensabili senza terre rare. Ma sono difficili da estrarre e la Cina gioca un ruolo di primo piano, anche in questa partita. Cerchiamo di capire cosa sono queste “terre rare” e quali sono le politiche da sviluppare tenendo conto di queste sfide.
Le terre rare sono costituite da 17 elementi, considerati vere e proprie vitamine dell’economia mondiale (scandio, ittrio, lantanio, disprosio alcuni tra questi). Sono fondamentali nell’industria della difesa e in generale in tutto ciò che riguarda il settore dell’Hi-Tech. Per via delle loro proprietà termiche ed elettromagnetiche, sono state una vera e propria leva nello sviluppo di numerose innovazioni tecnologiche e per il miglioramento delle loro prestazioni.
Nelle tecnologie a basso contenuto di carbonio sono fondamentali nei magneti permanenti di alcune turbine eoliche (turbine eoliche off-shore) e per i veicoli elettrici. Nonostante il convincimento dei più, non sono presenti nelle batterie di questi ultimi.
Malgrado il loro nome queste terre non sono affatto rare a livello mondiale. Perché allora “terre rare”? Nel XVIIImo secolo, quando lo scienziato francese Antoine Lavoisier le identificò, le terre rare erano meno abbondanti di altre terre conosciute all’epoca (calce, allumina, silice, ecc.). La prima terra rara, l’Itterbio, fu scoperta per caso dal chimico svedese Svante Arrhenius in una carraia vicino a Stoccolma. Oggi, sono le difficoltà ad estrarle e raffinarle che le rendono rare.
Al ritmo di produzione attuale (280.000 tonnellate) e viste le riserve mondiali (120 milioni di tonnellate), il mondo dispone di almeno 430 anni di consumo di terre rare davanti a sé. Le terre rare non sono critiche da un punto di vista geologico. Ma vista la necessità di tecniche a basso contenuto di carbonio, secondo i dati dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE), il consumo potrebbe essere moltiplicato per sette da qui al 2040 per via dell’elettrificazione dei trasporti, in allineamento con gli obbiettivi posti dall’Accordo di Parigi.
Altri utilizzi sono molto “avidi” di terre rare come il settore del digitale. Troviamo così delle terre rare, soprattutto il praseodimo, il disprosio e il neodimo in numerosi oggetti elettronici e digitali (cellulari, schermi, ecc. ). La convergenza tra transizione energetica e transizione digitale potrebbe esacerbare la pressione sulle risorse.
Mentre l’Europa si preoccupa della sua dipendenza in terre rare, il gruppo minerario svedese LKAB ha annunciato lo scorso gennaio la scoperta del “più grande giacimento di sempre “ di questi minerali in Svezia. Qual’è l’importanza di questa scoperta? Ed è veramente importante?
Oggi l’Istituto di studi geologici degli Stati Uniti (USGS) stima le riserve mondiali intorno ai 120 milioni di tonnellate di terre rare.
Queste sono divise tra Cina (37%), Vietnam (18%), Brasile (17%) e Russia (17%) che ne rappresentano il 90% a livello mondiale. Al contrario, meno del 7% delle riserve sono localizzate nei Paesi dell’OCSE. Solo Australia, Canada, Stati Uniti e Groenlandia ne possiedono (in misura molto minore, ma non priva di interesse, anche l’Italia). Da qui, la scoperta di un giacimento di tale portata (intorno a all’1% delle riserve mondiali), rappresenta un dato estremamente positivo per l’Europa.
Adesso, la questione che si pone è capire quando questa produzione sarà disponibile. La società proprietaria del sito ha fatto sapere che la vendita delle terre rare sul mercato non potrà avvenire prima di 10-15 anni, e questo porta l’insieme degli attori europei a non sopravvalutare le attese e i benefici di questo ritrovamento. I tempi minerari non coincidono con quelli della transizione a basso carbonio. Il mercato mondiale delle terre rare non sarà quindi, per ora, scosso da tale scoperta.
Rimane il problema Cina che ha realizzato il 60% delle estrazioni mondiali nel 2021, quasi il 90% delle operazioni di trattamento e raffinazione delle terre rare e la maggior parte della produzione di magneti permanenti, rimanendo regina del settore. Gli Stati Uniti sono al 15,3% della produzione mondiale, la Birmania al 9%, l’Australia all’8% e la Tailandia al 3%, completando il panorama di detentori di terre rare ai quali possiamo aggiungere il Brasile, Burundi, Madagascar e Russia.
Lo scorso 16 marzo l’Unione Europea ha pubblicato l’’European Critical Raw Materials Act che mira a mettere in sicurezza i suoi approvvigionamenti in metalli rari dando rilevanza alla carta riciclo (l’Italia è uno dei Paesi europei leader del riciclo, ma è necessario che aumentino i tassi di raccolta e venga sviluppata la filiera industriale).
Attualmente l’Unione Europea dipende per il 98% dalle terre rare cinesi per le importazioni e consumo interno. In generale, dipende per il 90% per l’insieme dei materiali necessari alla transizione a basso contenuto di carbonio. La scoperta del sito svedese fa quindi comunque parte di un insieme di politiche che l’UE spera portare avanti per alleggerire la sua dipendenza in approvvigionamenti in materie critiche: sviluppo della produzione di minerali e di metalli su scala nazionale, sviluppo del riciclo e di politiche circolari su ampia scala e diplomazia mineraria che mira a costruire nuove alleanze tra produttori e consumatori.
Altra soluzione sarebbe lo sviluppo di tecnologie che non necessitano di questi materiali. Ma attualmente non ci sono alternative con prestazioni equivalenti.
Non dimentichiamo che la necessità sempre crescente di utilizzare questi metalli per lo sviluppo di molte tecnologie gli conferisce anche un’importanza strategica a livello internazionale. I Paesi occidentali hanno chiuso molte miniere per motivi sanitari ed ecologici.
La Cina, che si pone meno problemi “etici”, si ritrova con il semi monopolio assoluto, cosa che gli conferisce non solo importanti introiti, ma un grande potere negoziale nelle dispute internazionali. Per esempio, nel 2010, in seguito a tensioni politiche sopraggiunte tra Cina e Giappone dopo l’arresto di un pescatore cinese al largo dell’isola di Senkak della quale i due Paesi rivendicavano la proprietà, la Cina avrebbe cessato di fornire terre rare al Giappone, cosa che avrebbe portato a una grave mancanza nella catena di produzione di Hi-Tech del Paese nipponico.
Non solo importanza strategica ma problemi ecologici. Lo sfruttamento di metalli rari comporta molti rischi ambientali e sanitari. L’estrazione avviene con operazioni complesse e devastanti per l’ambiente considerando che per estrarre qualche chilo di metallo raro, vanno estratte tonnellate di rocce. Inoltre, numerosi elementi tossici (metalli pesanti, zolfo, elementi radioattivi) vengono dispersi nell’ambiente e servono quantità enormi di acqua che verrà a sua volta contaminata e riversata in natura senza trattamenti particolari.
Al di là dell’estrazione, la raffinazione necessita dell’utilizzo di molti prodotti chimici per dividere i metalli tra loro e dalla roccia.
Per via dell’estrazione le popolazioni locali vengono esposte a gravi rischi per la loro salute. In Mongolia, dove questi impatti sono critici, la radioattività in alcuni villaggi posti intorno a siti di estrazione sarebbe 14 volte superiore a quella di Chernobyl (32 volte sopra la norma).
Questi minerali vengono anche chiamati minerali di sangue, per via dei conflitti armati e alle conseguenze di lavoro disumano che comporta la loro estrazione, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo e la regione dei Grandi Laghi. Nel 2015, 27 conflitti tra gruppi armati erano legati al controllo delle miniere con il fine di mettere in sicurezza la fonte di guadagno principale nel finanziamento delle loro guerre. In totale sono centinaia di migliaia di persone che lavorano in condizioni deplorevoli per pochi euro a settimana.
Per quanto concerne l’Italia, nella la corsa al nuovo oro il nostro Paese mira a riaprire le sue miniere. In un articolo apparso su “Il Sole 24 ore” lo scorso 14 Luglio, il Ministro Urso ha fatto sapere che l’Italia possiede 16 delle 34 materie prime critiche indicate dall’Ue, in particolare quelle per veicoli elettriche e pannelli solari. Le norme per la loro estrazione e lavorazione dovrebbero essere pronte per la fine dell’anno.