Crisi Magneti Marelli. È allarme per la transizione sostenibile
Un mese fa la decisione di sospendere a tempo indeterminato la procedura di chiusura dello stabilimento di Crevalcore di Magneti Marelli. A seguito dell’incontro al Ministero delle Imprese e del Made in Italy, il gruppo di investimento americano Kkr, proprietario dell’azienda di ricambi e componenti Automotive, accettava di sospendere, ma non di ritirare, con eguale soddisfazione dei sindacati, la procedura di chiusura del sito in attesa del subentro di nuovi investitori. Poi, durante il recente incontro in Regione Emilia Romagna tra enti locali, azienda e sindacati, la svolta: questi investitori esistono, sono cinque e tutti molto interessati a rilevare lo stabilimento produttivo.
Una notizia importante, che perlomeno consente di avviare un tavolo di trattative e confronto, senza countdown sulle teste dei 230 lavoratori a rischio licenziamento. Sebbene i timori restino, allargandosi a macchia d’olio anche sugli altri 11 stabilimenti italiani, tra cui Venaria Reale, Sulmona e Bari, segnati da numerosi esuberi.
Ma come si è arrivati a questa situazione? Come può una multinazionale leader nel proprio settore essere costretta a chiudere importanti siti produttivi?
Si sbaglia a cercare di ridurre tutto a un’unica, vera causa scatenante. Come quasi sempre avviene in situazioni simili, i fattori sono molteplici, non necessariamente collegati tra loro. Sicuramente gli imbuti logistici e produttivi, legati alla carenza mondiale di semiconduttori e di elettronica di potenza. Senz’altro l’aumento dei tassi con conseguente difficoltà a rifinanziare il debito generato dal leveredge buyout con cui Marelli è stata venduta nel 2018 a Kkr. In poche parole: la guerra in Ucraina.
Ma anche, se non soprattutto, una visione strategica che ha sottovalutato le complessità legate alla transizione energetica. Scelte imprenditoriali non orientate e favorire ricerca e sviluppo (possibile, per un colosso come Marelli) verso una valida alternativa, sia all’inquinante termico sia all’esoso elettrico. Lo stabilimento di Crevalcore, infatti, producendo collettori di aspirazione aria e pressofusi di alluminio, entrambi componenti di motori endotermici, non risponde alle esigenze della transizione. Eppure il compianto Sergio Marchionne aveva anticipato il tema una decina di anni fa. “Spero che non compriate la 500 elettrica, perché ogni volta che ne vendo una perdo 14.000 dollari” dichiarava nel 2014.
L’elettrico non è la salvezza, quantomeno non in maniera indiscutibile: nell’Automotive porta con sé criticità (ad esempio, le possibilità di diffusione anche in Paesi in via di sviluppo o sottosviluppati), che piano piano stanno emergendo. Dunque, non solo fiori e prati verdi. Non a caso molte case automobilistiche si stanno attrezzando per non trovarsi impreparate quando, nell’analisi costi-benefici, la bilancia della transizione non propenderà più verso l’elettrico. Si veda il bio-fuel, si veda l’idrogeno. Alternative valide a uno sviluppo dell’elettrico che ci vede indietro per motivi che non si esauriscono in mere scelte di business, considerando anche la forte spinta della politica mondiale.
E, forse, l’errore della Magneti Marelli sta proprio qui, nel non aver guardato alla transizione energetica a tutto tondo, ma solo in green (elettrico) e nero (termico).