Gli interessi dietro al narcotraffico: intervista a Marco Birolini

Edito da Ponte alle Grazie, Stato Canaglia (a cura di Simona Zecchi) è un’inchiesta sconvolgente sul narcotraffico e la sua pervasività nelle sfere politiche, dei servizi segreti e della massoneria. Un lavoro che mira a riportare alla luce decine di morti misteriose e complessi giri d’affari internazionali.
Questa è la nostra intervista a Marco Birolini, suo autore:
Ciao Marco, innanzitutto grazie per averci concesso questa chiacchierata, è un grande piacere; Partiamo del titolo del tuo libro. Dalla trattativa Stato-Mafia al patto Stato-Mafia: si è spesso detto che l’Italia sia uno Stato con dentro altri Stati (tra cui Sacra Corona Unita, Ndrangheta e Camorra). Sono poi così distinte ad oggi le entità in quello che tu nomini “Stato Canaglia”?
Allora, diciamo che la scelta del titolo “Stato canaglia” serve un po’ a riassumere l’idea che anche in Italia esisteva una parte di Stato, non tutta, che era in stretti rapporti con criminalità e poteri occulti. L’inchiesta, però, è stata scritta senza pretese di tuttologia, complottismi e fili conduttori unici. Ma di certo, tratta una serie di convergenze di interessi e parallelismi che, scavando in vecchi documenti e fonti private, si sono fatti parecchio evidenti nell’Italia di 30-40 anni fa. Ad esempio, in quegli anni lì la Sicilia era l’hub mondiale del traffico di droga, dal medio-oriente arrivava un sacco di eroina. All’inizio del libro cito l’indagine “Big John”: il giudice Falcone si fece spiegare dal pentito Joseph Cuffaro come il traffico di cocaina importata dagli states fosse organizzato da Rosario Naimo, ritenuto molto vicino alla CIA dagli investigatori. Questi personaggi in chiaroscuro mostrano benissimo quanto organi come la CIA spesso e volentieri, pur sapendo, chiudessero un occhio su certe cose. Questo è lo Stato Canaglia.
Dato che, giustamente, hai anticipato la centralità del traffico di droga sul tema, ti voglio fare una domanda che emerge un po’ istintiva leggendo l’inchiesta: è la geopolitica a strutturare il narcotraffico o il narcotraffico a definire gli interessi geopolitici? Oppure si influenzano a vicenda?
Sicuramente la geopolitica e il narcotraffico sono intrecciate. Ad esempio, il narcotraffico ha impatto fortissimo sulle zone di instabilità come il Sudamerica, l’Afghanistan. Ma anche la Siria che attualmente è il più grande produttore mondiale di Captagon, droga che hanno assunto i guerriglieri di Hamas prima di sferrare l’attacco del 7 ottobre. È una droga sintetica di cui ci sono stati dei sequestri anche in Italia: 4 anni fa nel porto di Salerno la Guardia di finanza ne intercettò 14 tonnellate. Sembra addirittura che rimbalzi dall’Europa in gran parte dei paesi del Golfo. Dietro ci sta un volume di soldi immenso, maggiore del business dei cartelli messicani: il traffico è diretto da soggetti molto legati al regime di Assad. Il problema è che tutte queste evidenze restano tendenzialmente dietro le quinte dell’informazione. Non se ne parla quasi mai.
In un’intervista di qualche anno fa il procuratore Gratteri ha spiegato una dinamica molto preoccupante. La Ndrangheta è passata da una fase in cui comprava cocaina dalla Colombia a una fase in cui ha comprato i terreni in cui coltivare la cocaina da vendere anche agli stessi colombiani. Insomma, anche qui un volume di potere e denaro spaventoso, si stima superi quello della Microsoft.
Eppure, ormai ne parli e la Ndrangheta sembra un affare esclusivamente calabrese. Ma invece, la sua pervasività incrocia un tema importante del mio libro: il narcotraffico, appunto. Se ad esempio hai bisogno di racimolare cento mila euro in poco tempo, il traffico di droga è un buon modo per riuscirci. Dai coltivatori ai “grossisti”, la filiera garantisce ingenti guadagni, in poco tempo e con rischi relativi: è un bancomat. Secondo alcuni documenti, sarebbe stato usato a volte anche dai servizi segreti per autofinanziarsi certe operazioni clandestine. Ho incontrato personalmente uno degli OSSI (durante gli anni ’70-‘80 erano ex membri delle forze speciali arruolati dal SISMI per missioni all’estero). Mi ha detto: “se ci prendevano all’estero erano ****i nostri”, il governo italiano li avrebbe disconosciuti in caso di cattura. Erano operazioni d’intelligence finanziate verosimilmente in modo illecito e, in via ufficiale, non riconosciute.
L’Italia, come affermi nel libro, è stata definita la “Colombia d’Europa” da un importante pm, anche perché era un “Hub internazionale del traffico di armi e droga”. È plausibile sostenere che nei principali scenari di conflitto armato contemporanei possano circolare armi che siano passate illegalmente nel nostro Paese?
Certamente, è possibile. Ora, il nostro lavoro di cronisti si deve basare, come è giusto che sia, su fonti certe per affermare anche solo certe ipotesi. Per dirti, personalmente ho lavorato su un sacco di documenti desecretati degli anni ’80. Prendiamo il caso del Libano: in quegli anni noi gli mandavamo i nostri rifiuti tossici, i palestinesi ce li interravano e in cambio si prendevano le nostre armi. Settembre Nero controllava tutto il traffico di droga e armi del Mediterraneo negli anni ’80. Se ne accorse per primo il giudice Carlo Palermo che all’intreccio armi-droga fu uno dei primi ad avvicinarcisi. Non a caso scampò a un attentato nel 1985, in cui però morirono due gemellini e la loro mamma.
Secondo la Società Italiana di Tossicologia, in Italia ci sarebbero ben 350 mila persone dipendenti da oppioidi, di cui circa 140 mila in trattamento. L’età media si aggira sui 25-26 anni, con picchi che arrivano a 60 anni. Negli USA si parla di vera e propria epidemia: avendo trattato anche il fenomeno dei Big Pharma, quale chiave di lettura ti senti di suggerire a questi dati?
Penso sia il volto dello stesso problema. Per fare questi farmaci serve l’oppio, di cui il 90% in circolazione è prodotto in Afghanistan. Un giornalista inglese, ormai tempo fa, ha fatto un’inchiesta in cui è andato proprio lì a chiedere agli americani come mai perseguissero soltanto i terroristi e non anche i coltivatori di droga. Gli venne risposto che non era loro mandato perseguirli. La ragione di ciò è che i signori della guerra che hanno aiutato gli americani in Afghanistan erano anche i trafficanti di oppio. Torniamo al solito discorso: ti aiuto a rovesciare Al-Qaeda ma in cambio mi fai coltivare il mio oppio. Ma c’è di più. Su Wikileaks ho trovato dei cablogrammi degli anni ’70 in cui il governo americano chiedeva a tutte le ambasciate di incitare i governi stranieri a rivendere alle aziende farmaceutiche l’oppio sequestrato. Anche oggi attorno all’oppio ruota un commercio gigantesco. Ma tutto questo ha costi sociali e sanitari enormi: pensiamo alle centinaia di migliaia di morti provocate negli Usa dall’abuso di ossicodone e Fentanyl.
Un’ultima domanda, più personale. Che sensazioni ti ha dato gettarti in questo enorme lavoro di ricostruzione? Ha rinvigorito la voglia di fare la tua parte per contrastare questa gigantesca idra che è il narcotraffico, oppure ti ha rassegnato al cinismo che può comportare la presa di coscienza di una forza così pervasiva e tentacolare?
È una bellissima domanda, ti ringrazio. Tante volte mi chiedo chi me lo fa fare, perché aldilà dei rischi è anche un lavoro faticoso. Però, a un certo punto la risposta a questa domanda la trovi: noi siamo questo. Il cronista è questo, deve denunciare quello che non va. A giugno 1992, poco prima di essere ucciso, gli studenti chiesero in università a Borsellino cosa potesse fare ognuno di noi per contrastare il fenomeno mafioso. Lui rispose che l’importante era che ognuno di noi facesse il suo dovere, basta questo. E credimi l’Italia cambia in un giorno. Invece, facciamo molto meno di quello che potremmo fare. Pensa, io in quel periodo volevo fare il magistrato, nel ’92 ero al secondo anno di giurisprudenza. La strage di via D’Amelio mi ha segnato dentro in modo devastante. Anche per questo ho scelto di fare il giornalista nel modo in cui lo faccio.