Venezia e la Biennale: la città che vive attraverso l’arte

Sul volgere dell’Ottocento, Venezia è una città che si ritrova a fare i conti l’ingombrante peso del proprio passato, ma che tenta di prendere per mano il futuro verso uno slancio che riporti la Serenissima sotto i riflettori del grande palcoscenico internazionale. Ci troviamo nell’ultima decade del XIX secolo, quando una ristretta élite di intellettuali e cultori d’arte iniziano a fantasticare sull’idea di una esposizione artistica a Venezia, sulla scorta della recente esperienza del 1887, in cui l’Esposizione Nazionale di pittura e scultura aveva riscosso un notevole successo di pubblico e di critica. Caso volle che nei i salotti del Caffe Florian -dove notoriamente si tenevano gli incontri di detta élite- assiduo partecipe fu Riccardo Selvatico, commediografo, politico progressista, noto alle cronache come il sindaco-poeta, o poeta-sindaco. Fu Selvatico, nel 1893, a proporre di organizzare una manifestazione artistica internazionale, con cadenza biennale, nel tentativo di render Venezia un polo culturale della nuova Italia, da poco unificata. Nel 1895 viene dunque inaugurata la Prima Esposizione Internazionale d’Arte, poi passata universalmente alla storia come Biennale. Fin dai primi anni, la Biennale incontra un grande favore del pubblico, tanto italiano quanto internazionale, portando i visitatori nella Serenissima a crescere in modo esponenziale, dai 200mila della prima edizione, 250 nel 1897, 300 nel 1899…fino ad arrivare ai giorni nostri con picchi anche oltre gli 800 mila visitatori. Agevole dunque immaginare come detto evento possa aver inciso sulla città stessa, arrivandone a plasmare la forma, il ritmo, la vita…divenendo essa stessa parte della città e del sentire dei cittadini. La Biennale non è infatti semplice estrinsecazione di un’arte insita tra le vie della laguna, ma è moto che attraversa la città e la porta a confrontarsi con le più intime esigenze del tempo che si affronta. Potremmo quasi immaginare che Venezia, per contenere le varie Biennali, si sia espansa -non certo in relazione alla topografia, ma in un senso simbolico- in varie direzioni e dimensioni proprio in virtù delle forme d’arte che ha ospitato e meticolosamente individuato nel corso delle edizioni. Sotto questo aspetto possiamo apprezzare come i suoi padiglioni abbiano reso la Biennale- e per suo tramite, Venezia- interprete dei grandi moti che nel corso di oltre un secolo hanno attraversato la cultura italiana, europea, finanche ad arrivare ad una prospettiva internazionale. È così che, per usare le parole di Mulazzani, la Biennale testimonia “una storia di permanenza nel continuo mutare”, in una città che al di là del perimetro della manifestazione stessa è rimasta pressoché immutata, come un luogo onirico. Una città che si è fatta custode della tradizione e traghettatrice delle nuove istanze del tempo, partendo da Michetti e Segantini, passando per Marinetti e il futurismo, le guerre, la pop art americana, il ’68, Pinochet…fino ad arrivare alla cosiddetta “normalizzazione” degli anni ’80, gli scandali del 1992 e la nascita della “Fondazione La Biennale” del 2004. Lucido e lungimirante allora Paolo Baratta -presidente della Biennale in un momento di grande cambiamento come il 1998- che riconosce alla manifestazione un immanente e anacronistico ruolo, quello di tener vivo, nel caos e nel frastuono dei nuovi mezzi di comunicazione, uno spazio per artisti che possano instaurare un dialogo non distratto né superficiale in un contesto di apertura e libertà che porta Venezia a capo di quella rivoluzione che è la ricerca del contatto umano. È doveroso infatti considerare come, nel globalismo dalla morsa sempre più stringente, Venezia si ponga ancora come luogo (meta)fisico di incontro tra visioni internazionali, legati dal collante della ricerca artistica; locus amoenus attraversato ma mai scaduto in singole correnti socioculturali, in grado di rapire, incantare e poi scaricare quanti passino per le sue vie. Un gioiello che rende l’Italia baluardo artistico in una società figlia della mercificazione, dove l’arte trova il proprio posto in precario equilibrio tra il caos e la stasi.